19.12.2022 – 07.10 – A chiudere la questione del contante ci ha pensato l’Unione Europea, ormai lo sappiamo: il tetto sarà fissato in 10mila euro, ben più di quello proposto dal governo di Giorgia Meloni, tetto allineato con consuetudini presenti in altri paesi e a chiusura di discussioni avviate e già in corso ben prima che Meloni arrivasse. C’è chi sottolinea come questa decisione vada in controtendenza con precedenti raccomandazioni proprio dell’UE, quelle del 2019 in tema fiscale; ma ci sono paesi UE che limite al contante non hanno (Germania e Olanda, e spicca la Finlandia dove pur tutto o quasi è elettronico), e non lo vogliono. Gli euro in moneta sonante e banconote potranno circolare liberamente quindi anche per le piccole transazioni, senza che per forza si debba far tutto in modo virtuale; per le cose più pratiche, ciascuna delle nazioni si organizzerà come ritiene più opportuno restando all’interno delle direttive. Eppure, invece, nonostante il chiaro orientamento dell’Unione, la polemica non si è affatto chiusa: la decisione UE “non va bene”. “Dibattito rozzo” sarebbe quello del centrodestra, “maree di critiche” dagli esperti, “avvertimenti da Bankitalia”, “evasione fiscale fuori controllo”. S’immagina che l’argomento tenga banco ancora per un po’, fin quando non verrà una nuova questione, sulla quale si tenterà l’ennesima polarizzazione d’opinione (che danneggia, alla fine, il rapporto fra il cittadino e la politica, scavando un solco profondo rendendoli sempre più distanti – e però è una tendenza che non sembra arrestarsi). Il tempo poi passerà, e con il recepimento e la messa in atto delle indicazioni UE, l’argomento scomparirà dalle cronache. Per lasciare, però, cosa? Il cashless alla fine fa bene, oppure fa male?
La questione del contante è complessa (proprio per questo, si presterebbe poco alle polarizzazioni; eppure). Partiamo da un fatto: il contante non è sempre ‘gratuito’ come si tende a dire, nel senso che, al volerlo maneggiare, rimane, per un commerciante ad esempio, un costo non irrilevante legato alla sua gestione, alla necessità di assicurazioni e al rischio sempre presente di furti. Bankitalia, secondo stime pre-pandemia, indicava come superiore, in percentuale rispetto all’importo della singola transazione e includendo le componenti indirette, il costo derivante dall’uso di contante rispetto a quello delle commissioni su carte di credito e di debito – che possono andare da zero a qualche centesimo per ogni transazione, sul quale però grava anche un costo fisso, di solito mensile, di abbonamento al servizio, che è difficilmente comprensibile in un’epoca in cui questo servizio a chi lo eroga non costa in pratica quasi nulla e ci sono anche servizi cashless che arrivano fino a quasi un 4 per cento complessivo a carico di chi vende. Comprensibile, se ci fermiamo un attimo a pensare, ricordare che anche il contante costa, e realistico. Sempre secondo Bankitalia, nel nostro paese il contante resta il metodo preferito per i piccoli pagamenti, al di sopra della media europea: lungo lo stivale proteso nel Mediterraneo, le transazioni elettroniche vengono fatte circa la metà delle volte rispetto alla media europea. Fattuale. A proposito, in Europa con le transazioni elettroniche siamo molto avanti: meno di una persona su cinque usa il denaro contante per pagare, e la tendenza è a portarne addosso via via sempre meno. Al contrario, negli Stati Uniti ad esempio, i rotoli di dollari tenuti in tasca e usati per qualsiasi cosa, ogni giorno, sono la norma. In Europa, le nazioni che preferiscono di più il contante sono la Spagna (anche se il limite è basso, è alta la frequenza), Malta e Cipro: l’Italia non è quindi in pole position, anche se certamente da noi il pagamento elettronico non piace a molti. Il fatto è che le tecnologie cambiano per davvero e cambiano per davvero rapidamente, e così il modo di pagare le cose: il cashless, di certo, in Italia non è più un tabù assoluto, è anzi già da tempo una grossa opportunità. Le ragioni che fanno preferire il contante sono forse altre, anche culturali: il contante può essere trasportato e scambiato con facilità (innegabile), è anonimo (fattore per niente trascurabile), viene accettato da tutti (con pochissime eccezioni), non servono intermediari (e questo è importante), si può certamente rubare però le truffe informatiche e le procedure scorrette sono ormai frequentissime e molti ci hanno rimesso tanto, anche in termini di mini addebiti ricorrenti non saltati all’occhio (dati alla mano). Tradotta quindi con un: “l’italiano vuole evadere sempre e comunque il fisco” – alla quale segue la narrazione secondo la quale, per motivi antropologici, siamo anche più ladri di altri e quindi è giusto, anzi doveroso, soffocarne alcune nostre libertà, fra le quali quella di pagare la carta igienica in contanti se non hai voglia di farlo con lo smartphone – diventa troppo semplice come risposta. L’evasione certo c’è; ma c’è anche un altro fattore che esiste da sempre: l’italiano, dello Stato, non si fida. Pagare elettronicamente è spesso ‘posh’ ed certamente conveniente, e il gesto con la mano sullo smartphone che salda per magia il conto della pizza è sicuramente attraente (le banche, dal pagamento elettronico, guadagnano immensamente). Che succederebbe, però, in un mondo in cui si paga tutto, e proprio tutto, con questo gesto magico? E se la magia finisse invece per essere una maledizione, se i costi di diventare interamente dipendenti dalle transazioni elettroniche fossero più insidiosi, e pesanti in termini indiretti, di quello che immaginiamo?
Ci sono alcune questioni etiche, quando parliamo di pagamenti elettronici e immaginiamo di togliere completamente il contante, che forse è meglio non dimenticare, e che permettono di dire che il denaro comune resta più democratico.
La prima, e la più inquietante, è la paura (che la guerra in Ucraina ha tolto dalla fantapolitica per trasformarla in realtà) è che i sistemi di pagamento elettronico possano essere trasformati in armi. L’ha dimostrato l’esclusione di una nazione da un sistema di transazioni internazionali, per decisione del proprietario di quel sistema stesso: per effetto delle sanzioni seguite alla guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha chiuso alla Russia il sistema SWIFT, che ha il suo quartier generale in Belgio. La Russia ha reagito usando il suo SFPS, un suo sistema equivalente proprietario che esiste dal 2014, e ricorrendo alle proprie carte di credito. Al di là del giusto e dello sbagliato, e di quanto possa funzionare il sistema autonomo russo o meno, l’arma ‘denaro elettronico’ è stata impiegata in modo esteso. Non è la prima volta (era accaduto ad esempio nel 2011 con il blocco da parte di MasterCard e PayPal delle donazioni a WikiLeaks); è la prima volta che quest’arma la si usa, però, in condizioni di guerra (quella di fatto esistente, finora per procura, fra Unione Europea e Russia). La trasformazione dei sistemi di pagamento elettronici in armi è uno sviluppo dell’era di Internet che terrorizza chi vuol guardare: ha ramificazioni profonde, che vanno oltre le leggi internazionali e internazionali. Gli Stati Uniti, ad esempio, non hanno esitato a bloccare le transazioni di soggetti che ritengano impegnate in azioni contrarie agli interessi di Washington: e questo, ovvero la capacità fattuale di un governo di poter distruggere in un attimo le operazioni finanziarie non solo di una nazione nemica (fin qui si potrebbe dire: niente di strano) ma di un’organizzazione privata, come WikiLeaks, o di un’azienda anche straniera, diventa un dilemma politico.
Una seconda domanda da porsi è come tutelare i consumatori dalla dipendenza totale dai pagamenti elettronici. Se avere a disposizione un sistema di pagamento diventa indispensabile per poter vivere normalmente (il bancomat come l’elettricità e l’acqua), diventa difficile poter pensare che esso possa essere interamente gestito da privati (visti i dilemmi già sollevati dalle privatizzazioni proprio in tema d’energia). Che succede se qualcuno decide di spegnerci il bancomat? Neppure un sistema di pagamento interamente gestito dallo Stato appare come una garanzia di democrazia: vorremmo vivere in una società nella quale il governo è capace di controllare, in qualsiasi momento, con grande efficienza, se abbiamo mangiato la brioche assieme al cappuccino, e dove? O se abbiamo preferito il taxi all’autobus? Occorre fermarsi un attimo a pensare su cosa un sistema di pagamento totalmente elettronico potrebbe diventare nel lungo periodo: non significa necessariamente escluderlo a priori, ma informare pubblicamente, e favorire la discussione in modo da arrivare a una decisione libera e consapevole. Che è la cosa migliore, se non vogliamo dire l’unica, per una società democratica. La riservatezza, attaccato continuamente da una certa tendenza che vorrebbe invertire l’onere della prova e dirci che siamo colpevoli fin quando non dimostriamo di essere innocenti, è un diritto umano riconosciuto; un diritto alla sorveglianza di massa, invece e per contro, non esiste.
Esiste, come ultimo tema su cui riflettere, un grosso problema di concorrenza. I grandi circuiti internazionali di carte di credito e debito come Mastercard e Visa controllano in molte nazioni già il 90 per cento del mercato delle piccole transazioni: un cartello molto solido, o come l’ha definito il Financial Times, è un “oligopolio ben protetto”. All’interno del quale c’è già un grosso punto di domanda riguardante miliardi di micro transazioni delle quali non conosciamo forse neppure l’esistenza, e che pure ci vedono protagonisti. Che fare allora – buttiamo via il bancomat, o la carta? Certamente no, perderemmo una grandissima comodità e anche tutto sommato una migliore garanzia di protezione per un certo tipo d’uso, ma impiegarla continuamente, per qualsiasi cosa, di fatto ci mette più a rischio. E diventiamo sbadati, diamo tutto per scontato. Potranno, le transazioni elettroniche, esser salvate dal predominio attuale di pochi e giungere alla meta dell’universalità grazie alle criptovalute, ai Bitcoin (e mille altre) per intenderci? Il ricorso alla blockchain, metodo (per davvero) elettronico globale, non falsificabile e democratico, è passato un po’ di moda: l’usare la blockchain non solo per la totalità dei pagamenti ma anche per la preferenza politica e per il voto era il cavallo di battaglia del Movimento 5 Stelle, e questo mano sul cuore è un bell’ideale per davvero. Ma la pandemia e qualche grossa e recente speculazione proprio sulle criptovalute (che ha lasciato molti senza un soldo) la visione democratica della blockchain l’ha appannata suo malgrado, e non se ne parla praticamente più. Eppure, potrebbe per davvero, se si fosse in grado di arrivare a una regolamentazione precisa e a un’etica d’applicazione che liberi i cittadini dagli oligopoli esistenti, essere la strada che porta alla sostituzione del contante con una valuta elettronica non tracciabile. E che risolve il problema delle leggi elettorali e delle preferenze cucite come l’abito di Arlecchino. Chissà se sarà mai possibile; probabilmente no. Peccato, sarebbe stato un bel traguardo da raggiungere che non ha colore politico.
Esiste infine un diritto, quello alla disconnessione, che tutela i lavoratori, rendendoli liberi di non ricevere o rispondere a email, chiamate e messaggi al di fuori del normale orario di lavoro. Una tutela fondamentale in un mondo in cui Internet è onnipresente; e assieme a Internet erano presenti sul nostro smartphone ormai ventiquattr’ore su ventiquattro anche il capo, la direttrice o il collega opprimente (il diritto alla disconnessione non ci tutela purtroppo ancora dai messaggi vocali e dai gruppi di genitori o dai condomini, anche se per fortuna qualche passo verso la libertà lo si sta facendo). Il pagamento elettronico obbligatorio può diventare una presenza altrettanto opprimente che c’impone di rimanere comunque costantemente attaccati a Internet, anche se non vogliamo. C’è un dubbio che ciò possa essere giusto. E in caso di dubbio, quella di poter restare disconnessi è in fondo una scelta da tutelare.
[r.s.]