19.06.2022 – 11.30 – Siamo nel 2002 e arriva un nuovo direttore. E per la sfortunata protagonista di questa vicenda cominciano i guai: collocamento in una stanza di lavoro di passaggio, continue lamentele nei suoi confronti, ingiustificati rimproveri, minacce e offese. Poi, alla lavoratrice viene imposto di riferire ogni proprio movimento, anche per andare in bagno. Dopo un paio d’anni viene privata di strumenti di lavoro quali il computer e la stampante. Dal 2005 si ritrova sostanzialmente demansionata, lasciata priva di strumenti di lavoro e senza incarichi specifici. I colleghi non sanno più cosa farle fare, salve mansioni residue ed inferiori alla qualifica di appartenenza. Esasperata da tale situazione lavorativa, nel 2008 si dimette e, poi, fa causa al datore di lavoro per mobbing e demansionamento.
Il Tribunale di Firenze respinge la sua domanda, ma la signora non si dà per vinta ed impugna la sentenza ricorrendo in appello. E la Corte d’Appello le dà ragione. Vengono infatti valutate con attenzione le dichiarazioni dei testimoni, i quali confermano che “L’atteggiamento ostile … si concretizzava in uno stretto monitoraggio dei movimenti della ricorrente all’interno dell’ufficio, ad esempio se rispondeva al telefono o si alzava per andare in un altro locale” e che “la ricorrente doveva relazionare giornalmente su quello che faceva” compilando moduli che venivano chiesti solo a lei. Infatti, dichiara un testimone, “non mi risulta che questa richiesta di rendicontazione giornaliera del lavoro sia stata chiesta a nessun altro”. Allo stesso modo, la privazione degli strumenti necessari allo svolgimento dell’attività lavorativa è stata confermata da un testimone: “… per un periodo la ricorrente rimase senza computer e stampante. Che io sappia non ci fu una giustificazione ufficiale di questo. Il computer e la stampante erano necessari per svolgere il lavoro … “, con la precisazione che la signora aveva richiesto tali strumenti di lavoro, ma invano.
I fatti si susseguono per anni e, messi tutti in fila, per il giudice dimostrano che la dipendente “nel periodo in questione, sia stata oggetto di un comportamento vessatorio posto in essere da parte del direttore dell’Ufficio ove lavorava”. Questo comportamento illegittimo si è concretizzato, come detto, nella collocazione della lavoratrice in una stanza di passaggio, mai utilizzata prima dai colleghi, nella imposizione di un rendiconto giornaliero del tutto non dovuto e mortificante, nella privazione degli strumenti necessari allo svolgimento delle proprie mansioni e, quindi, in una sostanziale dequalificazione.
Si arriva così alla definizione di “mobbing”, con cui si indica una condotta tenuta dal datore di lavoro nei confronti del suo dipendente consistente in una serie ripetuta di ingiustificati soprusi diretti ad isolarlo ed a screditarlo nell’ambiente di lavoro e preordinati alla sua estromissione dallo stesso, condotta tale da comportare per il lavoratore gravi menomazioni sia in relazione alla sua capacità lavorativa che alla sua integrità fisica. È questo ciò che è accaduto? Il giudice non ha dubbi e il datore di lavoro viene condannato a pagare il risarcimento dei danni. (Corte Appello Firenze, sez. lavoro, n. 393/2019)
[g.ca]