15.07.2021 – 08.30 – Nel mondo del diritto, non tutto funziona come nella realtà di tutti i giorni. A volte le differenze sono impercettibili, altre volte sono eclatanti. Prendiamo il caso del risarcimento del danno. Immagina che una macchina ne tamponi un’altra facendole 1.000,00 euro di danni. Quanto sarà il risarcimento del danno che dovrà pagare chi ha causato l’incidente? La risposta è intuitivamente facile: 1.000,00 euro. Più il danno è grave, maggiore è il risarcimento. E allora, quanto sarà il risarcimento per il danno più grave di tutti, quello per cui una persona muore? Qual è il risarcimento in caso di morte? Come faccio a calcolare il danno causato per la perdita di una vita? In realtà, il conteggio è di una semplicità disarmante ed è uguale per tutti. Il risarcimento del danno per la perdita della vita è zero.
Stiamo parlando del danno “tanatologico”, cioè del “danno da morte”. Il nome deriva dall’antica Grecia e tutto ebbe inizio quando la Notte diede alla luce due figli: Ipno, il dio del sonno, e Tanato, il dio della morte. Mentre cadere tra le braccia del primo è tutto sommato piacevole, sin dall’antichità nessuno vorrebbe finire tra le grinfie del secondo. Il diritto si è trovato spesso a dover valutare situazioni in cui qualcuno ha ingiustamente perduto la vita. Quando siamo sicuri che ci sia un colpevole e che ci sia un danno per la perdita della vita (il danno “tanatologico”, per l’appunto), perché non dovrebbe esserci anche una condanna al risarcimento del danno?
Vediamo assieme un caso pratico. Vista la natura del danno in esame, si tratta di una vicenda tragica, in cui, in seguito ad un incidente stradale, un uomo perdeva il figlio e la moglie, deceduti nell’incidente. Chiedeva, quindi, il risarcimento e, tra le voci di danno, domandava “il risarcimento del danno non patrimoniale patito dalla vittima primaria”, cioè il risarcimento del danno subito dal figlio per il fatto di essere morto nell’incidente.
La questione finisce dinanzi alla Corte di Cassazione, che richiama una propria decisione del 2015 (SS.UU. n. 15350/15) in base alla quale “non è risarcibile … il danno da perdita della vita”. Perché? Perché “… non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare”. In pratica, poiché è la morte della vittima a far sorgere il diritto al risarcimento del danno per la perdita della vita, chi muore “non fa in tempo” ad acquisire questo diritto al risarcimento e, pertanto, non può trasmetterlo ai propri eredi.
L’effetto pratico è quello sopra descritto: se, a causa di un incidente, si rompe una gamba, si ha diritto a essere risarciti. Se, dall’incidente, ne deriva per te una qualsiasi sofferenza, potrai monetizzare il tuo dolore. Il denaro allevierà la tua perdita e la tua sofferenza. E se invece la vittima muore sul colpo? Se muore, nessun risarcimento è dovuto. È il danno tanatologico che, nel nostro diritto, non può venire liquidato in alcuna misura. (Cassazione n. 13261/2020).
g.ca