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sabato, 19 Aprile 2025

Trattativa Stato-mafia, chi vince e chi perde?

30.09.2021 – 08.00 – Vincitori e sconfitti prima. Sconfitti e vincitori dopo. No, forse non basta una (doppia) definizione così semplice per chiudere il caso. Cerchiamo di capire, perché molto spesso in un’aula di tribunale si fa “giustizia”, o qualcosa di simile ad essa, ma alle volte c’è il rischio di perdere di vista il quadro complessivo. La trattativa tra uomini dello Stato e Cosa Nostra possiamo ormai considerarla come un fatto conclamato, per nulla edificante. Scaturò per paura, nei primi mesi del 1992, quando la Cassazione (mondata dal giudice “ammazzasentenze” per eccellenza, ovvero Corrado Carnevale, su intuizione di Giovanni Falcone) confermò in via definitiva le pesantissime condanne del Maxi Processo di Palermo, che fece piovere sulle teste di tutti i più importanti boss mafiosi – Totò Riina e Bernardo Provenzano compresi ma latitanti – un diluvio di ergastoli. Cosa Nostra per la prima volta sconfitta in aula impugnò immediatamente le armi e punì, nel marzo del 1992, il suo più fedele alleato nel mondo della politica, ovvero Salvo Lima. Riina aveva stilato una lista di morte, Lima era soltanto il primo di un lunghissimo elenco che comprendeva altri politici, uomini delle istituzioni, inevitabilmente giudici. La bomba del 23 maggio 1992 accelerò di fatto la trattativa. Dal massimo livello dello Stato (su questo “massimo livello” difficilmente si farà mai luce, processi o meno) arrivò il via libera per sondare il terreno. Senza che ne venisse informata l’autorità giudiziaria (la procura, ad esempio) né tantomeno il giudice Paolo Borsellino. Vennero incaricati due carabinieri, alti funzionari del Ros (raggruppamento operativo speciale), di entrare in contatto con Vito Ciancimino. Mario Mori e Giuseppe De Donno – due imputati al processo sulla trattativa qualche giorno fa arrivato alla sentenza di secondo grado – parlarono con l’ex sindaco mafioso di Palermo per chiederli qualcosa del tipo: “Ma come mai questi omicidi, queste bombe, che vuole Totò Riina, non si può trovare un accordo?”

Piano, no, non è andata così. La corte di appello di Palermo soltanto qualche giorno fa ha rimesso in discussione questa ricostruzione. I massimi esponenti del Ros, De Donno, Mori e Antonio Subranni sono stati assolti perché nella loro iniziativa non c’è traccia di reato. Evidentemente sì, sono andati a casa di Ciancimo (che stava scontando gli arresti domiciliari) ma – si desume – nel contesto di un’operazione di polizia finalizzata alla cattura del latitante Riina. Assoluzione anche per Marcello Dell’Utri, che avrebbe – anzi, non avrebbe – fatto da portavoce delle minacce mafiose verso il Governo della Repubblica Italiana nel 1994. Che a questo punto forse non erano nemmeno minacce. Tra tre mesi le motivazioni della sentenza portammo chiarire questo e altri punti.

Che confusione, infatti. Non è facile dipanare la matassa dei prime due gradi di giudizio del processo sulla trattativa, tra imputati vivi (quelli citati sopra) ai quali vanno aggiunti anche i mafiosi Leoluca Bagarella, 28 anni in primo grado e 27 anni in appello, Antonino Cinà (il medico di Totò U Curtu), 12 anni confermati in appello, e Bernardo Brusca, reato prescritto. E imputati morti: lo stesso Riina, Provenzano.

Un momento, ma la condanna di Bagarella? Se la trattativa c’è stata, ma era soltanto uno stratagemma per far cadere in trappola Riina, perché il numero 4 di Cosa Nostra si è beccato 27 anni per minaccia pluriaggravata allo Stato? Viene facile il pensiero: lo Stato si autoassolve perché “il fatto non costituisce reato” vedi i carabinieri e perché “non ha commesso il fatto” vedi Dell’Utri, ma condanna i vecchi nemici. In ogni caso due gradi di giudizio non bastano, ora c’è da attendere il verdetto della Cassazione.

Tuttavia le sentenze non dicono tutto, non condannano e non assolvono i comportamenti. Quella “stramaledetta” questione morale è sempre d’attualità, in ogni caso. La trattativa non è reato, e ci può stare. Ma il depistaggio sulla strage Borsellino, la mancata perquisizione del covo di Riina subito dopo la sua cattura nel gennaio del 1993, l’eliminazione di Luigi Ilardo, i tentativi di ammorbidire il 41bis (ovvero il carcere duro per i mafiosi), le bombe di Firenze, Roma e Milano, un’antimafia ormai fatta all’acqua di rose ricca di slogan ma povera di fatti concreti, e la lista potrebbe continuare – rimangono episodi gravissimi. Che non si possono cancellare o dimenticare con una sentenza questa volta favorevole. Emergerà mai la verità? Ma poi, è mai esistita una unica e inequivocabile “verità” nelle questioni riguardanti Cosa Nostra? Collusioni, amicizie, silenzi, hanno definitivamente distorto la percezione nei fatti di mafia. Mandanti, esecutori, ideatori, spalleggiatori di delitti e stragi eccellenti hanno sempre agito con unità d’intenti. Dall’altra parte invece lo Stato è sempre stato titubante, confuso, spaccato al suo interno. Verità, questa sconosciuta.

di Alessandro Scollo

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