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sabato, 19 Aprile 2025

Coronavirus, variante inglese ormai in tutta Europa. Per la prevenzione meglio aria fresca

26.12.2020 – 19.41 – A sottolineare il pendere della bilancia costi-benefici relativa al blocco dei trasporti aerei da e per il Regno Unito, messo in atto nei primi giorni di comparsa della variante inglese dal ministro Di Maio, verso il ‘tutto costo’ e ‘poco beneficio’ ci hanno pensato le immagini di persone bloccate negli aeroporti e di migliaia di camion fermi in attesa di attraversare la Manica. Ci sono stati poi i disagi legati alla permanenza forzata all’estero dei nostri connazionali e al rimpatrio e, soprattutto, la conferma della presenza della variante del virus in altri paesi europei, registrata in modo quasi uniforme dappertutto: Spagna con almeno 3 casi confermati a Madrid e con altri 3 casi sospetti, poi Svezia con 1 caso di un viaggiatore auto-isolatosi, Svizzera unico paese in Europa a tenere gli impianti sciistici aperti con 3 casi 2 dei quali in persone di nazionalità inglese (e migliaia di turisti, in queste ultime settimane, arrivati proprio dal Regno Unito), Francia con una persona contagiata ma asintomatica. In precedenza era già stata la volta dell’Italia, Germania e Olanda. Il virus, non curandosi affatto alle misure di supposto contenimento messe in atto ai confini, ha attraversato le frontiere impunemente, così come aveva fatto in gennaio e in febbraio diretto dalla Cina all’Europa o dall’Europa alla Cina a seconda del lato della medaglia politica che si voglia guardare (anche se gli sforzi per il contenimento della Cina, questa volta in campo economico, non sembrano essere bastati: gli analisi scommettono sul 2028 come anno in cui la Cina sorpasserà gli Stati Uniti come prima potenza mondiale, due anni prima del previsto).

L’Ungheria è stata in questi giorni la prima nazione dell’Unione Europea a iniziare la somministrazione di massa del vaccino Pfizer-BioNTech a mRNA, il più contestato proprio in quanto fortemente innovativo; Francia, Germania, Spagna e Italia dovrebbero iniziare domani, domenica 27 dicembre 2020. Nessuna delle persone contagiate dalla variante inglese del virus è in condizioni preoccupanti: la mutazione, identificata nell’Inghilterra meridionale già in settembre, viene ritenuta alla base della diffusione molto più rapida delle positività a Londra e nel resto dell’Inghilterra, dove già circa due terzi delle persone contagiate, secondo le stime del servizio sanitario nazionale del Regno Unito, è venuta in contatto proprio il virus mutato, ma non si è rivelata più pericolosa.

Proprio a dicembre di un anno fa, dicembre 2019, di Coronavirus si iniziava a parlare. Finora, i media hanno preferito suddividere la pandemia in tre ondate: una prima ondata (quella di fine febbraio), una seconda ondata (quella di fine settembre) e una terza che dovrebbe iniziare ma che trova davanti a sé l’avvio delle vaccinazioni. Sia la suddivisione in ondate che l’aspettativa per il risultato del vaccino, per quanto comprensibili (e il vaccino è un’ottima notizia), non hanno incontrato finora il favore del mondo scientifico per motivi piuttosto semplici, il primo dei quali è che non ci sono state, effettivamente, ondate diverse di pandemia non essendosi mai esaurita la prima, e il secondo che il vaccino è disponibile in quantità per ora notevolmente limitata e non tale da garantire un’effettiva immunizzazione generale prima di almeno otto mesi, forse un anno a partire da oggi. Per tutto il 2021, quindi, da un punto di vista epidemiologico a meno di imprevisti poco cambierà. Il picco di morti iniziale, in marzo, era dovuto più all’impreparazione dei servizi sanitari e alla mancanza di conoscenza della malattia Covid-19 e di come mitigarne gli effetti piuttosto che a un virus più aggressivo. I metodi di prevenzione e di contenimento non sembrano aver dato, alla luce dei fatti, gran prova di sé anche se esiste un forte gruppo di sostenitori del contrario: oggi però di Coronavirus si muore in proporzione molto meno, perché i servizi sanitari sanno come intervenire e quali errori non fare. Nonostante le regole imposte nei trasporti pubblici e negli spostamenti degli italiani, le scuole deserte, i bar e i ristoranti chiusi e le mascherine stesse, numeri alla mano da settembre a oggi il virus si è diffuso molto più rapidamente di prima e ha toccato un maggior numero di persone. Sono proprio questa rapidità e l’apparente inutilità dei lockdown, specie quelli a macchia di leopardo, che rendono difficile attribuire la diffusione del Covid-19 solo a una singola causa, spesso coincidente con la semplificazione, eccessiva, dell’ ‘irresponsabile che non rispetta le regole’: se il Covid corre così rapido, come spiegazione questa non basta. È molto probabile che quel ‘non ne sappiamo ancora abbastanza’ pronunciato pochi giorni fa in una diretta radiofonica da uno dei virologi di riferimento, alla fine, sia la spiegazione più razionale. Che cos’è stato, a scatenare la corsa del Covid-19 in quest’ultima parte del 2020? Forse il tempo atmosferico, o la coda per lo spritz veneto delle ore 17, oppure la crisi che ha portato alla necessità di lavorare anche se sarebbe stato meglio stare a casa visto che lo ‘smart working’ tutto non può. Forse proprio l’emergere di varianti più contagiose, e forse tutte queste cose assieme.

A questo punto però, per noi, cercare la spiegazione e dibattere sul perché o per come diventa sterile, ed è un terreno di discussione che va lasciato agli scienziati, perché dalla storia completa dell’epidemia fra qualche anno si trarranno insegnamenti fondamentali. Ai cittadini, stanchi di undici lunghi mesi di restrizioni, monotonia e incapacità di seguire il passare dei giorni su un calendario visto che le chiusure parziali hanno tolto di mezzo oltre a Natale e Capodanno 2020 la differenza fra un mercoledì e una domenica, va offerto qualcosa d’altro: prima di tutto sollievo e un minimo di spensieratezza, con la riapertura delle scuole e magari di cinema, palestre, teatri e musei visto che nessuno di questi (la scuola soprattutto) si è dimostrato come un focolaio d’incubazione ma piuttosto ha consentito una qualità della vita migliore che si traduce in una migliore capacità, anche fisica, di reazione a un’eventuale malattia. E parallelamente, visto che la vaccinazione è all’orizzonte ma ci vorrà molto tempo, va data la sicurezza di essere in presenza di un problema sanitario che, anche se non superato, è perlomeno sotto controllo. Puntare solo sul vaccino e sui gazebo potrebbe rivelarsi infatti un autogol come quello delle mascherine: le campagne pubblicitarie rischiano di sedurre le persone facendo pensar loro che fra poco rilassarsi sarà finalmente possibile e che si tornerà presto alla normalità. Ma non possiamo farlo: non possiamo, neppure lontanamente e anche se sentirlo dire è terribile, pensare che questa crisi sanitaria stia per finire.

E da qui arriviamo alla misura che finora è stata gestita in un modo disastroso: il monitoraggio di massa. Un programma di test con tamponi il più affidabili possibile (non lo saranno mai al cento per cento) è ancora completamente mancante, e ciascuna regione italiana, pur se siamo a dicembre e gli undici mesi sono ben che passati, va in linea di massima per conto proprio. Un piano nazionale efficace di screening non è mai stato sviluppato: dopo il tentativo, nato morto, di Immuni, in tema di App non si è più parlato di una seria raccolta dati perlomeno parziale fra i cittadini. Molti dati utili si possono raccogliere senza che la privacy venga violata: piuttosto che test, però, abbiamo investito preziose risorse per fare Cashback. E nonostante alcune sensate proposte fatte dall’una o l’altra parte politica in tema di test proprio in aprile, con l’estate su questo tema è sceso un silenzio generale: le modalità per poter rapidamente fare un test di positività sono ancora farraginose e fortemente dipendenti da istituti privati, i tempi per avere un risultato molto spesso eccessivamente lunghi e tali da rendere spesso inutile il beneficio: giorni piuttosto che ore, che possono diventare più di una settimana se il test, per qualsiasi motivo, deve essere ripetuto. In Europa, la Germania ha posto le fondamenta della sua azione di prevenzione della pandemia proprio sui test e sui programmi di controllo; in Italia, capita spesso che una squadra di calcio di serie A sia molto più monitorata di una residenza per anziani, e non per responsabilità di quest’ultima. Niente più di un test negativo a un tampone può motivare un cittadino a seguire le norme igieniche di base e ad evitare i contatti, magari spostandosi in bicicletta piuttosto che in metropolitana, proprio per poter rimanere negativo: una sorta di meccanismo premiante, ‘sei negativo e puoi muoverti ma il test lo devi ripetere spesso’. Ma questo test non c’è, ed è difficile pensare che il cittadino medio possa, di settimana in settimana, spendere 80 o 90 euro di tasca propria per continuare un monitoraggio costante. Eppure, provare a ricostruire la fiducia, ormai persa, dei cittadini nei confronti di politici che dovrebbero sapere quello che stanno facendo sarebbe molto importante: con i test gratuiti dappertutto piuttosto che con il Cashback.

L’arma più dimenticata nel rincorrersi di mascherine e gel disinfettanti, durante questi mesi, rimane comunque l’aria fresca (che, detto fra noi, farebbe bene anche in politica, e presto). L’aria fresca è capace, secondo i ricercatori dell’Università di Oxford, di ridurre la presenza del virus in un ambiente fino al 70-80 per cento, semplicemente diluendone la concentrazione e disperdendolo: unita al lavaggio frequente delle mani, anche con il semplice, efficacissimo sapone, e all’evitare i contatti fisici non necessari, la diluizione in aria aperta del virus anziché favorire una maggiore diffusione del contagio fa esattamente il contrario e può diminuire il rischio complessivo fino al 95 per cento: non è poco. D’inverno, quando viviamo al chiuso e le finestre le sbarriamo per dare il via alla danza di termosifoni e climatizzatori tenuti troppo alti, con l’aria a ricircolo e condizioni d’umidità tali da creare un perfetto bacino di sviluppo, di virus ci si ammala più facilmente. E quanto aperte dovrebbero essere, le finestre? Quel poco che basta a creare una piccola corrente, e a portare le impurità dell’aria all’esterno cercando di tenere una temperatura interna fra i 18 e i 20 gradi al massimo. Suona persino troppo logico; potremmo provare.

[r.s.]

Roberto Srelz
Roberto Srelzhttp://www.centoparole.it
Giornalista pubblicista. Direttore responsabile Trieste All News.

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