Balcani Occidentali
29.04.2021 – 10.00 – Albania: Con circa il 49% dei voti il Partito socialista (PS) del premier Edi Rama ha vinto le elezioni di domenica 25 aprile. Il Partito democratico (PD), la principale forza dell’opposizione, si è fermato attorno al 39%. Rama, in carica dal 2013, si avvia così verso il terzo mandato consecutivo.
Perché conta: L’Albania che esce da questo voto è la solita cara vecchia Albania. La campagna elettorale aveva vissuto qualche momento di tensione specie sul finale, con alcune sparatorie (una vittima), ma nel complesso è stata abbastanza tranquilla. L’immagine di “uomo del fare” di Rama, che ha incentrato il proprio messaggio sulla campagna vaccinale e sul progetto di alcune “grandi opere”, è risultata vincente. Le urne non hanno certificato solo il predominio dei socialisti, ma anche l’inscalfibile egemonia del duopolio PS-PD, che insieme raccolgono circa quattro quinti dei suffragi. Non esistono alternative a queste due formazioni che, guardate da vicino, presentano ben poche differenze. Il cambiamento è impedito da vari fattori, uno dei quali è la sostanziale estromissione della diaspora (1,8 milioni di persone, per un paese dove abitano solo 3,5 persone). Anche per queste elezioni, il litigioso parlamento albanese non è riuscito ad accordarsi per promulgare una legge che avrebbe permesso agli albanesi residenti all’estero di esprimersi. Il paese adriatico si conferma così un caso paradigmatico di “stabilitocrazia”, come vengono definiti quei regimi dei Balcani occidentali imperniati sul mantenimento della stabilità, obiettivo a cui viene sacrificato l’attuazione di un reale cambiamento democratico, grazie anche al sostegno dei partner esterni, Ue in primis. In Albania, la pietra angolare di questa stabilità è l’ancoraggio incontestabile al fronte transatlantico. Come sintetizzato brillantemente dal sindaco di Tirana Erjon Veliaj “In Albania crediamo più nell’Occidente che in Dio”. Mentre tutti gli altri Stati della regione sono scossi da conflitti interni tra gruppi che sostengono politiche estere almeno in parte differenti, la repubblica delle aquile spicca infatti per la fedeltà assoluta che garantisce agli Usa.
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Montenegro: Il governo ha annunciato l’intenzione di siglare una partnership con la Chiesa ortodossa serba, risolvendo un conflitto che aveva alienato al precedente governo il sostegno di quasi tutta la minoranza serba del paese.
Perché conta: Secondo l’ultimo censimento disponibile, circa il 72% dei cittadini montenegrini si dichiara di fede ortodossa e tra loro più di due terzi aderisce alla Chiesa ortodossa serba. Nei quasi trent’anni di dominio del Partito dei socialisti e democratici (PDS) del presidente Milo Đukanović, i rapporti tra istituzioni statali e clero ortodosso si erano gravemente deteriorati, fino a raggiungere l’apice nel 2019, quando il parlamento aveva approvato una norma che avrebbe, di fatto, spogliato la Chiesa ortodossa serba di molte delle sue proprietà. Il PDS non aveva optato per contrastare l’influenza delle gerarchie ortodosse tanto per una consapevole avversione alle professioni di credo. Negli anni erano state firmate partnership con le comunità cattolica, ebraica e musulmana. Combattere il clero ortodosso era per gli uomini di Đukanović un modo con cui combattere la Serbia, di cui questi pope sono notoriamente visti come agenti in terra straniera. Allo stesso modo, quindi, per l’esecutivo del premier Zdravko Krivokapić riallacciare i rapporti con le autorità ortodosse non è solo un modo per mantenere la più importante promessa fatta in campagna elettorale, ma anche una mossa con cui ammiccare a Belgrado. Da notare, a margine, che questo – fragilissimo – esecutivo sembra aver adottato una linea molto intelligente in politica estera. Đukanović era riuscito a consolidare la propria egemonia presentandosi agli alleati occidentali come un partner affidabile e genuinamente atlantista, nonostante le frequenti sbandate filocinesi. La coalizione che sostiene l’attuale governo sembra quindi intenzionata a mantenere il timone verso Occidente in modo da provare agli alleati che non serve Đukanović per tenere i rivali lontano dal Montenegro, anzi. In tal modo, il nuovo governo punta a meritarsi abbastanza autonomia per interagire con i due soci che più gli interessano: Serbia e, se le acque si calmeranno in futuro, Russia.
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Europa Centrale
Ungheria: Secondo un recente sondaggio, solo un terzo degli ungheresi ha un’idea almeno vaga di quanti siano i morti per Covid nel paese.
Perché conta: Questo dato si spiega in primis con il fatto che l’esecutivo magiaro sta facendo poco per diffondere statistiche di primaria importanza relative alla pandemia, come appunto il numero delle vittime, se non proprio celandole deliberatamente, privilegiando la narrazione autocompiaciuta del proprio operato. Le conferenze stampa quotidiane, tenuta dalla responsabile sanitaria Cecília Müller e da due esponenti delle forze dell’ordine, durano circa mezz’ora e seguono tutto lo stesso canovaccio. Nella prima parte vengono elencate in modo didascalico le azioni intraprese dalla polizia per punire chi ha violato le norme imposte per il controllo della pandemia. Solo dopo interviene Müller, che richiama quasi esclusivamente notizie positive, relative per esempio all’andamento della campagna vaccinale. Solo dopo almeno un quarto d’ora Müller comunica il numero di vittime del giorno, per poi prodigarsi subito in consigli pratici e rassicurazioni. L’intenzione è verosimilmente quella di dare l’impressione che la normalità stia per ritornare in tempi brevi e che le autorità abbiano tutto sotto controllo. Il totale dei morti non viene mai menzionato, né in queste conferenze né nei documenti governativi. E i media allineati all’esecutivo non di rado criticano l’azione di altri governi Ue, trattando soprattutto i paesi dove il coronavirus ha colpito più che in Ungheria. Ciò significa che quel 36% di ungheresi che ha indicato la cifra corretta, o cifre relativamente vicine, ha appreso questi numeri da fonti indipendenti o straniere, magari una di quelle che vengono frequentemente messe all’indice dai canali d’informazione vicini all’esecutivo, come successo ancora a metà aprile. In questa rubrica è stato più volte analizzato il processo di concentrazione, occupazione e annichilimento della stampa portato avanti dal governo di Viktor Orbán sin dal 2010. Un decadimento di pluralismo, qualità e spirito critico che ha portato media stranieri come Deutsche Welle e Radio Free Europe a scegliere di tornare a trasmettere in ungherese, come all’epoca della Guerra fredda. In un momento come quello attuale, dove l’opinione pubblica nutre un bisogno vitale di buona informazione, l’assenza quasi totale di una stampa libera si sente con ancora più urgenza del solito.
Per approfondire: Stampa e regime. «La giornalista provoca facendo domande» e altri nonsense contro i media in Ungheria [Linkiesta]
Cechia-Russia: Praga ha espulso 18 dipendenti dell’ambasciata russa, essendo stato accertata la responsabilità dei servizi segreti russi in un’esplosione avvenuta nel 2014 in un deposito di munizioni e in altri atti di sabotaggio. Mosca ha risposto espellendo 20 funzionari dell’ambasciata ceca, che si trova così virtualmente chiusa.
Perché conta: Le tempistiche non sono casuali. Con questa mossa la Cechia taglia i ponti con Mosca, proprio in un momento di alta tensione tra Usa e Russia. Come analizzato già altre volte in questa rubrica, Praga si sta avvicinando decisamente a Washington, dopo aver per alcuni anni coltivato l’idea di aprirsi anche a Mosca e Pechino. Con la Casa Bianca sempre meno propensa a tollerare che gli alleati giochino su più campi, scegliere da che parte stare sta diventando una priorità. E, a differenza di Ungheria e Slovacchia, la Cechia non sembra avere dubbi. Anche se nel paese persistono sacche di società che auspicherebbero una politica estera meno devota all’Occidente, radunate attorno al presidente Miloš Zeman, il governo di Andrej Babiš pare desideroso di virare con decisione verso Ovest. La crisi diplomatica ha infatti già avuto un’importanza conseguenza concreta. I russi sono stati tagliati fuori dalla corsa per modernizzare l’impianto nucleare di Dukovany, che era divenuto una delle questioni più delicate sul piano geopolitico per Praga. Adesso restano in corsa soltanto aziende occidentali o di paesi, come la Corea del Sud, molti vicini agli Usa.
Per approfondire: “Scettica e pragmatica: la Cechia sarà sempre così”. Vít Dostál, esperto di geopolitica ceca [Trieste.News]
s.b