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sabato, 19 Aprile 2025

‘Di libro in vigna’ Corno di Rosazzo. Presentato il nuovo romanzo ‘Il cane d’oro’ di Sara Segantin

16.10.2023 – 07.10 – “Mi è capitato di sentirlo in notturna, mi è capitato di percepirne gli ululati, di guardare le sue impronte e di scorgerne a malapena la sagoma – come tanti che lo studiano da anni e non sono mai riusciti a vederlo; è un animale estremamente schivo.”
Sara Segantin, scrittrice e divulgatrice scientifica, si riferisce così allo sciacallo dorato, animale selvatico a metà tra un piccolo lupo e una grossa volpe, che è ritornato ad abitare da una decina d’anni il Carso triestino e sloveno. Il suo nuovo romanzo “Il cane d’oro” (Rizzoli) parte, infatti, da questo dato contingente per porre una riflessione sul rapporto complesso tra esseri umani in qualità di abitanti delle città e il selvatico – vissuto fin troppo spesso come “natura addomesticata”.

Partiamo dal tuo romanzo ‘Il cane d’oro’. Come si inserisce l’idea del selvatico in un contesto iper urbanizzato come quello della città?
“Nella nostra società esiste una relazione malsana con il selvatico perché non siamo più abituati a conoscerlo e riconoscerlo. In un Paese sovrappopolato come l’Italia, il selvatico non ha più spazio per spostarsi, e raggiunge il contesto urbano dove non viene più considerato; da qui nascono situazioni di disagio. Siamo di fronte ad una gestione del territorio radicalmente sbagliata e dobbiamo ripensarla dalle radici. L’Unione Europea e le Nazioni Unite ce lo dicono già da tempo: sono necessari nuovi piani urbanistici – nelle città e a livello nazionale. Fondamentali sono i corridoi ecologici, concepire sempre più delle città che siano integrate nel mondo naturale, proponendo spazi quanto meno possibile antropizzati.
Fino ad ora stiamo giocando alle nostre regole, ma è venuto il momento di definire un sistema di coesistenza con il selvatico per il nostro stesso benessere; se collassa la biodiversità, collassiamo anche noi.”

E come mai hai scelto proprio lo sciacallo dorato come simbolo di questa separazione tra umano e selvatico?
“Ero con un amico fotografo in Carso e doveva fare degli appostamenti, l’obiettivo era riprendere lo sciacallo dorato di cui non sapevo nulla fino a quel momento. Ho iniziato, così, ad indagare e ho scoperto diversi punti di vista; alcuni lo descrivevano come un mostro ed altri come una creatura meravigliosa. Mi sono incuriosita e ho deciso di seguire le orme dello sciacallo dorato, animale borderline nella percezione comune. Da questa esperienza e dalla mia personale fascinazione per il nostro rapporto con il selvatico, sempre più compromesso nella società attuale, è nato “Il cane d’oro”.”

Nel romanzo ti riferisci al selvatico come “natura addomesticata” a causa di una separazione in atto tra l’umano e il selvatico. Ma non pensi che questa divisione possa aiutare nel riconsiderare gli spazi reciproci, nel rispetto di entrambe le parti?
“Finora non è stato così; guardando all’oggi questa separazione ha portato ad una scissione tra umano e selvatico, alimentando una volontà di prevaricazione più che di rispetto. È necessaria una sinergia integrata nel mondo naturale, di cui facciamo parte anche noi esseri umani. Il principio segue la relazione tra le persone, come in amicizia o in amore, dove lo stare insieme non deve escludere l’accettazione delle peculiarità dell’altro. Siamo in un mondo olistico e non dualistico; non possiamo più considerare umano e mondo come due entità separate. Insieme, siamo un ecosistema.”

Il tuo rapporto con il selvatico tende più all’ammirazione, ma ci sono delle occasioni in cui hai provato paura?
“Il timore si accompagna alla scoperta del selvatico; gli animali non sono peluche ma esseri viventi con un sistema paradigmatico di pensiero e con un istinto diverso dal nostro. Forse l’incontro più traumatico è stato con le balene; poterle osservare a pochi metri è davvero impressionante.”

Nella tua esperienza, hai avuto un contatto con la natura fin da piccola, crescendo in Trentino, nella Val di Fiemme. Ma cosa consiglieresti a chi non ha mai sperimentato un’esperienza simile?
“Ripartirei con il camminare, dai parchi cittadini fino agli ambienti naturali che si possono scoprire nei dintorni della città. Consiglierei di fare attenzione al mondo nascosto degli ecosistemi urbani: blatte, zanzare, farfalle, insetti impollinatori. E se c’è la possibilità, non sarebbe una cattiva idea avere un terrazzo giardino o delle piante che abitino i nostri spazi più intimi. Ci sono mille modi per riacquistare una dimensione relazionale ed impegnata con la natura. Si ha bisogno di toccare con mano questa connessione per riscoprire antichi legami o sperimentarli per la prima volta, conoscere ciò che non è familiare per poter amarlo e difenderlo. Serve, quindi, più consapevolezza.”

A proposito di consapevolezza, gli inizi nell’attivismo con il movimento ambientalista Friday For Future, nel contesto triestino, testimoniano la necessità di spingere verso una nuova sensibilità di fronte alle tematiche ambientali. Da dov’è nata la volontà di aderire?
“Ho studiato a Trieste per cinque anni e le tematiche ambientali mi hanno sempre accompagnata per educazione familiare, scolastica ed esperienze all’estero. Ho avuto più volte il privilegio di entrare in contatto con temi forti e pregnanti come la giustizia climatica e sociale.
Nel 2019, c’era una necessità incombente tra gli studenti di farsi sentire, di essere parte del presente, di sentirsi considerati. Quando c’è stata l’opportunità di avere voce, si è preso il via; si poteva far parte di un movimento, e non sentirsi più soli rivendicando un protagonismo di parola, di azione e di scelta. Si parlava sempre dei giovani, ma non li si faceva mai parlare. Oggi qualcosa è cambiato, si sta facendo qualche passo in avanti nonostante sia tutto troppo lento, invece bisognerebbe correre.”

I movimenti attivisti odierni a contrasto della crisi climatica sono sempre più numerosi e hanno modalità d’intervento differenti. Secondo te, questa divisione interna non risulta, però, problematica, distogliendo dagli obiettivi comuni?
“Se media e politica avessero dato peso a esempi positivi e costruttivi nel passato, invece di ricercare toni sensazionalistici nelle notizie, forse non ci sarebbero stati interventi d’azione così radicali come quelli di Ultima Generazione. D’altro canto, è anche vero che i movimenti sono ondulatori e ci sono diversi modi di lottare.”

Guardiamo, infine, al macro. A livello istituzionale ci sono stati, negli ultimi anni, dei passi in avanti che guardano ad una coesistenza tra umano e ciò che umano non è?
“A livello governativo sono state prese davvero poche misure, ci sono state false speranze con la COP26, il G20 a Glasgow e i 200 miliardi del PNRR. Per un momento si è pensato che potessero fare la differenza, poi è arrivata la pandemia, la guerra in Ucraina e le violenze aberranti nella striscia di Gaza; siamo in un momento storico di forti violenze. Se si sospendono diritti umani e civili, non ci può essere posto per i diritti ambientali.
È evidente una cecità delle istituzioni, che rifiutano uno sguardo sistemico: la transizione ecologica non può essere solo una transizione energetica; serve un passaggio culturale. E intanto aumenta la sfiducia nelle istituzioni, alimentata da messaggi contraddittori che spesso acuiscono le disuguaglianze. Siamo di fronte ad una grande complessità; ripartire dalla morfologia di un territorio e dalla cultura di cui esso è intriso può essere un primo passo per riavvicinarsi al selvatico e ripensare a una coesistenza reciproca.”

Sara Segantin è stata la quarta ospite della rassegna eno culturale Di libro in vigna”, promossa dalla cantina Canus e dalle Librerie Lovat. Il romanzo “Il cane d’oro” è stato presentato a Corno di Rosazzo, in un dialogo tra la scrittrice e la giornalista Fabiana Martini.

[m.p]

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