30.01.2022 – 11.12 – Con domenica 30 gennaio, oggi, i materassi vanno scaricati dal furgone e in Sicilia non si torna più: tutto va riportato al Quirinale, e il trasloco più documentato degli ultimi vent’anni è ufficialmente annullato. Sergio Mattarella, nato a Palermo il 23 luglio 1942, al quale va tutta la nostra stima, è nuovamente presidente della Repubblica Italiana. Per spiegare un’inattesa (non tanto; la persistenza del suo nome fra i votati, già da più giorni, faceva intuire che la macchina delle candidature era in pieno movimento), ampia convergenza su un mandato Mattarella bis, e il rimanere al governo dell’Italia di leader di partito o d’organizzazione che hanno un’età prossima alla speranza statistica di vita degli uomini di questo quarto di secolo (che è di ottant’anni al 2019: Sergio Mattarella li ha compiuti a luglio dell’anno scorso; Silvio Berlusconi, protagonista della corsa al Quirinale fino a pochi giorni fa prima di un nuovo ricovero in ospedale, ne ha 85, e Mario Draghi, ‘notevolmente’ più giovane, ne ha dieci di meno ed è oltre i 70), oltre agli indubbi meriti del mandato trascorso, potrebbe essere sufficiente ricordare che, per una classe politica sempre più distaccata dalla vita reale e dal paese, è meglio, alla fine, seguire la corrente. Plaudire la serietà che nessuno può mettere in dubbio, restando comunque in mezzo a un fiume nel quale il canotto, anche se c’è chi rema nel verso sbagliato, si può comunque controllare (possibilmente da sopra seggiole sulle quali ci si è già ben sistemati: anzi, assicurati con le cinghie). E votare, come presidente, chi c’è già, piuttosto che avventurarsi verso il cambiamento, ad esempio (e sarebbe ben stata l’ora) con una donna che non ha ancora sessant’anni o con un nome di posizione diversa in Parlamento. La maggioranza dei cortigiani supporta il re, quando il re è un simbolo dietro al quale si può cambiar tutto per non cambiare niente: in questa nuova dimensione, dai primi giorni di febbraio Sergio Mattarella avrà un corpo naturale (egli stesso) e uno simbolico (ovvero ciò che sarà deciso da Partito Democratico e Lega, con la compiacenza del Movimento 5 Stelle e un Mario Draghi saldamente in sella per almeno un anno).
Il presidente della Repubblica è una bandiera, un simbolo: in Italia, diversamente da molte altre nazioni, non diventa un uomo (di donne, non parliamone più: non se ne vedono all’orizzonte neppure per Palazzo Chigi, che peccato) in cui il cittadino si identifica. In Italia è difficile trovare chi a cinquant’anni, e men che meno a trenta o venti, possa dire di vedere in Sergio Mattarella il suo ideale, senza alcuna colpa o mancanza di Mattarella stesso: l’ultimo uomo che forse ha destato un sentimento simile è stato Sandro Pertini, quarant’anni fa (già è stato scritto che Mattarella è il più votato proprio dopo Pertini: i contesti e le personalità sono talmente lontani e differenti che scriverlo non vuol dire niente). Difficile immaginare la schiera di politici che oggi festeggiano alzarsi domani e dire: “Sono italiano, e sto con Mattarella”: più facile ipotizzare, a breve, il ripetersi di scene già viste, come il Luigi Di Maio che di Mattarella vuole l’impeachment “per evitare reazioni della popolazione” (visto che Mattarella non ha fatto ciò che si voleva), o il Salvini che vuole processare “Mattarella complice degli scafisti” (visto che Mattarella non si è scagliato contro gli immigrati). Il Pd, Mattarella lo difende da sempre (anche se non sempre: si disse, in area di sinistra molto vicina al cuore di Trieste, all’epoca delle sue dichiarazioni sui totalitarismi neri e rossi del secolo scorso in commento alla risoluzione dell’Unione Europea in materia, che Sergio Mattarella era “un criminale colpevole di alto tradimento”). Un presidente di destra non si vede da lungo tempo, eppure in un ruolo istituzionale di questo genere un’alternanza sarebbe tutto fuorché sbagliata; ma su questo è la destra stessa forse a doversi fare un esame di coscienza, e in fondo in fondo, più di qualcuno sperava, anche se senza dichiararlo, in Mario Draghi, per poter così andare ad elezioni e presentare il conto dei consensi. In ultima analisi, per i cittadini il presidente della Repubblica è la figura paterna (niente madri, in Italia: è la terza, e ultima per oggi, volta che lo diciamo anzi scriviamo) al quale appellarsi quando le cose vanno molto male: l’uomo al quale rivolgersi guardando la fotografia appesa al muro, chiedendo magari a gran voce di rimuoverla. Mattarella o non Mattarella, le elite si comporteranno da domani allo stesso modo di prima, e nel presidente della Repubblica non si identificheranno affatto: omaggi al rieletto, e grandi manifestazioni di sostegno e solidarietà, eppure alla drammatica crisi nel mondo della scuola e ai figli in DAD o dallo psicologo ci si penserà più avanti, e i ventenni di buona famiglia verranno comunque mandati in massa all’estero a studiare (magari in Francia). A istruire le penne su cosa sarà meglio scrivere ci si penserà senz’altro, finanziandole alcune più di altre, e anche gli imprenditori, pur trovando un po’ di sollievo in Matteo Salvini, dovranno fare come prima. E dopo Mattarella? “Non ne abbiamo idea. Ma non è il momento di pensarci”.
La politica italiana, a questo punto il sospetto è legittimo, aveva probabilmente sul presidente 2022 già un’agenda astratta: la continuazione del percorso precedente, un percorso che dopo gli anni di Napolitano (dal 2006 al 2015) e ora quelli che si preannunciano per Mattarella sta diventando però logoro. La rielezione di Sergio Mattarella non è una cattiva cosa di per sé: figura alla quale va riconosciuto il massimo valore umano e politico, rassicura la maggioranza degli italiani, e saprà fare bene il suo lavoro visto l’alto profilo personale e l’esperienza del mandato precedente. Dimenticando che il secondo mandato di Giorgio Napolitano è una stortura istituzionale che non avrebbe dovuto ripetersi, così era stato detto. È però la scelta stessa, che non va: è un nuovo tappo che frammenta e impedisce il cambiamento, e non fa presagire un cammino di riforme, del quale l’Italia ha bisogno più dell’acqua nel deserto. Il rischio del Mattarella bis con Salvini, Enrico Letta e Giuseppe Conte (e Berlusconi ago della bilancia) potrebbe essere il non iniziare quel cammino di riforme strutturali del quale parliamo da dieci anni senza averne vista una. Farlo scivolare ancora nell’oblio, senza un progetto politico per la ripresa o almeno un piano di qualche tipo, mettendo al centro, al suo posto, il come spendere, spartendolo fra i partecipanti all’assise, quel denaro europeo per la ripresa che non è un regalo m un prestito e che un giorno si dovrà restituire, nell’ennesima ripetizione di anni già visti. Una macchina di Stato, quella italiana, che perde sempre più il ruolo di autorità morale del paese e diventa anno dopo anno più distante dal suo cuore, nell’erodersi e poi disintegrarsi di norme di comportamento e valori, e nella deformazione dei confini, come quello dell’eccezionalità della ripetizione di un mandato presidenziale, di ciò che è permesso a spese di quello che fino a poco prima era moralmente inconcepibile. Pur predicando un ritorno ai valori tradizionali di lavoro, famiglia e patria, pur annunciando di continuo rivoluzioni che falliscono mancando esse di qualsiasi sostanza. Alla fine della fiera, niente di nuovo. La dicotomia che Sergio Mattarella si troverà a dover affrontare sarà come una passeggiata in un campo minato: la tabula rasa del post pandemia. I disastri istituzionali frequenti da dover risolvere, coniugati a incapacità di una classe dirigente che non trova la forza o la determinazione per rinnovarsi. Il tutto nel contesto di una debolezza morale del sistema paese di fronte al cittadino, che impedisce a volte persino di ammettere che Internet non perdona e che ciò che si è detto solo pochi mesi, o giorni, prima è ancora lì, e si può rileggere. E la cosa più grave di tutte: il disinteresse dei giovani.
[r.s.]