02.11.2021–08.00 – Centoventi leader mondiali, accompagnati dalle loro delegazioni, si siedono questa settimana al tavolo di Glasgow, una delle città simbolo della rivoluzione industriale dell’Ottocento, per discutere di clima e di come il loro bruciare carbone, petrolio e gas sia giunto, dopo due secoli, a mettere in pericolo l’esistenza dell’uomo per come la conosciamo. A COP26, questo il nome del meeting definito dagli esperti come miglior speranza per affrontare la crisi del clima, si dovrebbe arrivare a un accordo per la rimozione del carbone dalle centrali elettriche (questa la cosa più importante) entro una ventina d’anni; il negoziato può quindi finire o con un piano per decarbonizzare con rapidità il mondo o in un tremendo fallimento, proprio perché tutto ciò che non sia una rapida decarbonizzazione è un fallimento. Alla decarbonizzazione ci si sarebbe già dovuti arrivare nel 2030; ora si parla del 2050, anche perché ‘vaccino’, diventata parola dell’anno, con la sua declinazione ‘Green pass’ ha fatto diventare l’Agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile un trafiletto, mettendola nell’angolo del ring della comunicazione se non proprio spazzandola via dalle prime pagine.
COP26 parte già molto male. Xi Jinping è assente: sotto le pressioni della comunità internazionale e dopo aver parlato prima con Emmanuel Macron, che gli ha chiesto un segnale “decisivo”, e poi venerdì con Boris Johnson, Xi partecipa alle iniziative solo a tratti e in videoconferenza. Il problema principale infatti è che il piano di Pechino contro le emissioni di gas serra, presentato giovedì scorso, parla del 2030 come anno in cui l’inquinamento da prodotti fossili raggiungerà in Cina il suo picco piuttosto che la riduzione prevista, e andrà verso lo zero nel 2060: la Cina è la nazione che, se si guarda alle emissioni in atmosfera, inquina di più al mondo, e i leader mondiali hanno avuto, di fronte alla data comunicata da Xi, un moto di disappunto (e Greenpace Asia ha calcolato una curva talmente ripida per andare dall’oggi a zero entro il 2060 da averla definita “fantascienza”). La risposta di Xi Jinping alle critiche del mondo è piuttosto pragmatica: obiettivi incompatibili con le necessità strategiche, soprattutto interne, della Cina, che ha bisogno di energia. Si potrebbe pensare che la Cina stia indirizzando la sua produzione di energia al militare, e che stia perseguendo l’obiettivo di superare gli Stati Uniti come prima potenza strategica al mondo è fuori dubbio, però non è quello: è Internet a costare ormai quasi più di tutto nel ciclo di consumo di corrente elettrica e per Internet naturalmente non s’intende il Web ma l’enorme, ciclopico insieme di infrastrutture che sovrintendono al Cloud, alla comunicazione (compresa quella quantistica), all’elaborazione dati – non sono più le fabbriche di scarpe italiane ‘Made in China’ ad assorbire il prodotto energetico ma la miriade di servizi avanzati ai quali di solito neppure pensiamo. Boris Johnson a Glasgow parlerà di “un minuto a mezzanotte”; ma se già la Cina guarda a un orologio diverso e ai suoi obiettivi interni, neppure Joe Biden, che sul clima si gioca la faccia e ha promesso di trasformare in elettriche tutte le auto americane (quanto sia poi ‘green’ un parco di auto elettriche è tutto da verificare) e di buttar fuori il carbone dalle centrali della sua grande nazione contribuendo a una riduzione del 25 per cento del gas serra nel mondo, è sicuro di avere in mano delle carte da giocare. Gli Stati Uniti arrivano al COP26 senza un chiaro supporto del Congresso e con pochi elementi che possano sottolineare un vero impegno degli Stati Uniti sul clima; Biden rimprovera Cina e Russia per la mancanza di chiarezza ma a casa sua si trova di fronte a un progresso lentissimo nell’avanzamento delle leggi federali che regolano l’inquinamento di centrali elettriche, pozzi di petrolio e autotrasporti, e i previsti budget da centinaia di milioni di dollari sono ancora fermi (Donald Trump aveva detto che “i cambiamenti climatici sono creati dai cinesi per rendere le industrie statunitensi non competitive”). Quindi in fin dei conti per ora, e ancora una volta, l’unica differenza nelle politiche sul clima fra Cina, Russia e Stati Uniti sta nelle parole e nel modo di pronunciarle, ma non nella sostanza. E la Russia appunto? Non c’è neppure Putin, e per quanto riguarda le politiche sull’energia questa nazione a noi molto vicina, che domina l’Europa attraverso le forniture di gas, si è, attraverso Sergey Lavrov suo ministro degli Esteri, poco sorprendentemente allineata a quelle cinesi, identificando il 2060 come anno in cui si raggiungerà l’obiettivo di neutralità sul carbone: l’alleanza Cina-Russia è più forte che mai (poco importa in questo contesto che sia stata l’Europa ad aver spinto la Russia verso la Cina, e poco importa allo stesso modo che la scelta sia derivata da pressioni d’oltreoceano, ormai così è). Altri poi, come l’Australia e l’India o il Brasile e la Turchia, proprio alla necessità di buttar via il carbone e i combustibili fossili non hanno prestato alcun interesse o quasi: per ora non ci pensano neanche. Solo un pugno di nazioni, con l’Europa ancora una volta a fare da portabandiera, presenta impegni chiari.
I ‘grandi del mondo’ scherzano, lanciano monetine nelle fontane, si siedono in venticinquemila per un buon tè e parlano quindi di quanto sarebbe bello togliere il carbone di torno perché il mondo ne ha bisogno e la mezzanotte per l’umanità è vicina, ma non s’impegnano finora su nessun obiettivo chiaro e non rilasciano dichiarazioni precise. Serve subito un piano per limitare il riscaldamento globale del pianeta a 1 grado centigrado e mezzo rispetto all’era preindustriale, o le conseguenze saranno irreversibili: l’ultima analisi che pesa come il marmo è quella delle Nazioni Unite. L’unica strada per far questo è raggiungere l’equilibrio fra gas serra immesso e rimosso dall’atmosfera entro il 2050, e solo con l’impegno dei ‘grandi inquinatori’, in forma di leggi nazionali, a dimezzare le loro emissioni entro i prossimi dieci anni questo è possibile. L’unica cosa che sembra intravedersi rispetto a prima però, a quell’Agenda 2030 ormai dimenticata, è solo un’attenzione maggiore dei ‘grandi’ nei confronti di ciò che dice la scienza (e chissà che, questo sì, visto ciò che per disattenzione è accaduto, non sia un effetto del Covid-19); manca però l’unità politica, e questa rinnovata attenzione, che non si vedeva dagli anni Ottanta, non basta. Il 2060 di Cina e Russia (e alla fine degli Stati Uniti) è troppo lontano e il 2030 deve tornare a essere l’anno di riferimento. “Se Glasgow fallisce, fallisce tutto”; per dirla con Johnson, siamo sulla buona strada.
[r.s.]