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sabato, 19 Aprile 2025

Covid, dati e relazioni “nascoste”: lo studio dell’Università di Udine

18.10.2021 – 13.00 – Lo scorso agosto è stata pubblicato uno studio condotto da diverse divisioni del Dipartimento di Area Medica dell’Università di Udine (Malattie Infettive, Statistica Medica) insieme al dipartimento di medicina di laboratorio e di scienze mediche. L’oggetto della ricerca era stabilire se e in che modo la risposta immunitaria alla prima infezione da Covid-19 vari nel tempo in pazienti – sintomatici e asintomatici – che avevano presentato una diversa gravità di insorgenza della malattia, fino alla sindrome respiratoria acuta grave.
La statistica è una disciplina “cumulativa”: giunge a conclusioni accumulando esperienze e indagando se esista una “fascia critica” in cui il comportamento della maggioranza tende a convergere. La statistica analizza un certo numero di soggetti – detto campione statistico – in opportune condizioni; si dice che il campione deve essere rappresentativo della popolazione, cioè capace di imbrigliare in un numero limitato di individui delle caratteristiche generali, in modo da rendere ragionevole un’estensione dei risultati ottenuti all’intera popolazione.
Il campione statistico di questo studio è composto da 542 individui, il 63% dei quali aveva avuto una manifestazione non grave della malattia; si tratta di persone che hanno contratto l’infezione per la prima volta nel periodo marzo-maggio 2020.

L’indagine, condotta tramite prelievo di sangue, consisteva nel monitorare la risposta immunitaria dei pazienti durante i primi quattro mesi e poi dopo sei, otto e dieci mesi dall’insorgenza della malattia. Tramite tecniche di laboratorio è stata indagata la presenza di particolari molecole coinvolte nella risposta immunitaria dell’organismo umano, dette immunoglobuline. Se è in corso un’infezione, il nostro corpo intercetta la presenza di un elemento estraneo e si mobilita per debellarlo. Quando la proteina caratteristica di un virus viene riconosciuta, vengono prodotte delle proteine specifiche – dette immunoglobuline – che, come chiave e serratura, si legano a piccolissime proteine del virus chiamate antigeni. Questo legame blocca la riproduzione del virus nell’organismo. Lo studio ha indagato due tipi di immunoglobuline, le igG e le igM, che nella fase di reazione al virus svolgono ruoli differenti.

Una volta stabilito che il campione dei 542 fosse sufficiente e adatto allo studio, testando la quantità di immunoglobuline in ogni paziente è stato possibile svolgere un’analisi statistica del campione, ovvero una misura di massima del comportamento nel tempo degli anticorpi sviluppati dai pazienti. Per essere più precisi, tramite test statistici standard è stato analizzato se esistesse una relazione tra la presenza di igG/igM e alcune variabili cliniche e demografiche, come la gravità di insorgenza del virus e l’età dei pazienti.

Una parte della statistica non fa altro che cercare correlazioni tra gli eventi; le correlazioni sono relazioni che si esprimono con una regolarità che si può in qualche modo identificare e classificare. Con l’aiuto di linguaggi informatici in grado di gestire grandi quantità di dati, sono stati implementati dei test statistici che sono vere e proprie cartine al tornasole per le correlazioni: dandogli in pasto i dati – in questo caso, le quantità di igG e igM nel sangue dei pazienti, riorganizzati secondo certi criteri – questi test smascherano un’eventuale regolarità intrinseca nei dati e la rappresentano per mezzo di leggi matematiche. In questo studio è stata riscontrata una correlazione innanzitutto tra la quantità di anticorpi e il trascorrere del tempo; la legge che esprime questa relazione è una curva che tende a decadere dopo quattro mesi per le igM, e dopo dieci mesi nella metà dei pazienti per le igG: l’evidenza del fatto che, se contraiamo questo virus e guariamo, siamo ben lontani dall’avere un’immunità permanente. Anzi: dopo solo dieci mesi potremmo essere punto e a capo.

Il risultato più interessante è stato riscontrato nella correlazione tra la quantità degli anticorpi e la gravità di insorgenza della malattia: considerando anche la variabile età, è emerso che alla fine della convalescenza i malati più gravi hanno più anticorpi, ovvero: sono immuni più a lungo al virus; inoltre, lo sono tanto più quanto più sono anziani. Questo ha anche dato senso al fatto che la maggior parte dei guariti che si sono reinfettati sono mediamente giovani. 

I ricercatori coinvolti nello studio commentano con entusiasmo i loro risultati, sottolineando come tante volte in questi anni ci siamo lamentati di non avere certezze sul comportamento di un virus inedito, di fronte a cui siamo partiti impreparati, spaventati e confusi. Studi come questi sono fondamentali per dare forma a grandi quantità di dati e leggervi delle leggi, delle ricorrenze, ovvero tutte le analogie che insieme conducono alla conoscenza di un fenomeno, e quindi ai provvedimenti sanitari sensati per riorganizzare la nostra socialità, ma anche per fare previsioni. 

di Rossella Marvulli 

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