12.10.2021 – 08.30 – Scene, orribili, come quelle romane sono un danno per tutti: è banale dirlo, e non lo è. La protesta non è quella di chi la usa poi come pretesto per la violenza; e allo stesso tempo lo diventa, perché la parte pacifica quella violenza non la ferma anzi non la ferma in realtà nessuno, è un film già visto e non solo da noi. Gli assalti della destra estrema alla sinistra sindacale (che dai lavoratori è distante già da più di un po’, ma tant’è: un simbolo la CGIL resta), con Roberto Fiore e Giuliano Castellino (poi arrestati domenica) in primo piano, non solo non sono neppure commentabili e nient’altro si può fare se non condannarli con fermezza, ma non hanno neppure un senso, non solo perché sono cose d’altri tempi (che, nonostante la nostalgia di qualcuno, non hanno alcuna possibilità di ampliarsi e trasformarsi in altro ripescando dalla storia busti e fasci) ma perché per vederci dietro complotti di gran portata serve troppa fantasia. Riescono solo in una cosa, nel danneggiare qualsiasi forma di opposizione sociale dando un pretesto in più – se ce ne fosse stato bisogno – verso l’inasprimento delle misure di sorveglianza, e a farne le spese non potranno che essere le altre proteste: lo sciopero generale di oggi, e tutte le manifestazioni di un malessere profondo che attraversa l’Italia.
Si è scelto il fiume di manifestanti (questo è) contro il Green pass che si trasforma, sui media, nell’assalto alla CGIL (non è stato così: si è trattato di un importante, brutto, fatto collaterale, ma non di una trasformazione del senso della protesta) per rappresentare questi giorni complicati del nostro tempo, e come base del ragionamento che proveremo a fare. Queste immagini, e la storia di Castellino e Fiore arrestati, si prestano molto bene a descrivere il concetto di “effetto secondario” di cui da qualche settimana si sta parlando fuori dal nostro paese, e che qui da noi è fortemente presente, molto più che altrove. Si può riassumere così: già si sa che ogni azione ha una conseguenza, ma ogni conseguenza ha una sua conseguenza secondaria. L’Italia è stata vittima, come la gran maggioranza dei paesi del mondo, di un’epidemia: numeri alla mano (numeri di contagiati, numeri di malati, numeri di morti e numeri di guariti), per niente una banale influenza, anzi una situazione serissima. Eppure, allo stesso tempo, una situazione non così terribile come i giornali e soprattutto i Social network hanno scritto (quest’ultimi corredando le parole con notizie fasulle di ogni genere dove per genere s’intende proprio di tutto: dalle strampalate idee sul complotto internazionale delle grandi case farmaceutiche al virus trasportato in vagoni per essere diffuso fra la popolazione, tanto che le notizie vere, anche quelle riportanti problemi di salute e casi avversi dopo la vaccinazione, sono affogate nel mare di fesserie). Il terrore di marzo 2020 ha condotto al lockdown; il lockdown ha messo in ginocchio l’economia di interi settori (fra i pochi fortunati beneficiari del lockdown e della pandemia: i media). Si è studiato un piano brillante per emergere dalla situazione, ovvero proseguire nello stato d’emergenza prima colorando l’Italia di giallo e arancione e poi destrutturando l’idea stessa del passaporto sanitario europeo trasformandolo da strumento per agevolare il movimento a mezzo di controllo: ‘Imponendo il passaporto verde, spingeremo le persone a vaccinarsi’ (proprio il contrario di quello che l’Unione Europea ha detto, ovvero che nessun trattamento sanitario obbligatorio è ammissibile – peraltro lo dice anche l’Italia nella sua legge fondamentale). Una parte degli italiani, per un motivo o per l’altro (è una minoranza ma non così piccola e va quindi rispettata e tutelata), il vaccino però proprio non lo vuole; e allora perché non fare ancora un passo avanti, un giro di vite come quello di renderlo necessario per lavorare? ‘Se facciamo i duri, ce la faremo’. Ed eccoci alla manifestazione di Roma (e non solo): un numero di persone scese in piazza che non si vedeva da vent’anni, e idranti in azione e questo non si vedeva ancora da più tempo. Chi sarà, ora, il più duro? Mario Draghi o i “No Green pass”? E avanti, e avanti, con Roberto Speranza e Renato Brunetta che girano altre viti e basterebbe fermarsi invece solo per un attimo a riflettere per immaginare le conseguenze secondarie – non volute, ma non certo definibili come inattese: se anche arriveremo all’obiettivo di aver vaccinato l’intera popolazione, scatterà poi l’obbligo del terzo richiamo vaccinale, e come verrà gestito e come sarà un inverno col passaporto? Il decadere a gennaio 2022 dello stato di emergenza senza che ne segua un altro (motivato da qualche variante da lettera d’alfabeto) è ipotesi veramente remota; quanti saranno allora i manifestanti a scendere in piazza alla prossima occasione, quanti avranno già perso il lavoro, oppure si userà la strategia dell’attendere che la protesta scemi da sola (e non accadrà) mentre la fiducia nelle istituzioni e nella politica cala ulteriormente e la frangia che vuole la violenza, purtroppo, acquista popolarità? E avanti.
Sarebbe un errore addossare la responsabilità di tutto questo al solo Mario Draghi, vuoi perché il governo Draghi non è il primo in cui ci sono i comitati tecnico-scientifici e le virustar in tivù, vuoi perché contro l’attuale stato di emergenza, in Parlamento, non ha votato nessuno ma anzi esiste una raffica di votazioni fatte in modo unanime, vuoi perché un atteggiamento di sottovalutazione di questo genere, ricco di grossolano errori di valutazione, è diventato endemico nel mondo occidentale. Prendiamo ad esempio il Regno Unito rimasto senza benzina: nient’altro che il risultato del focalizzarsi sugli obiettivi di prima necessità trascurando la programmazione a medio termine. Per Mario Draghi, “Whatever it takes”, l’obiettivo è la copertura vaccinale, e la psicologia e la sociologia hanno ormai dimostrato che a Occidente si pensa con più facilità al particolare, e alla visione d’insieme ci si arriva forse dopo, mentre a Oriente si pensa al contesto e il particolare sarà l’elemento aggiunto alla fine. Come scrive Matthew Syed sul Times, questa tendenza dell’Europa ad analizzare i casi specifici e i particolari è stata molto utile nel Settecento e nell’Ottocento, epoche più semplici, ma il Ventunesimo è il secolo del mondo interconnesso e di Internet e il non essere in grado di mantenere un approccio olistico nell’analisi delle situazioni sta diventando la nostra più grande debolezza, e questo può spiegare perché anche la nostra politica e la posizione dell’Occidente nel mondo stiano venendo messa a dura prova: decisioni sbagliate, conseguenze dolorose. Persino mortali, come potrebbe esserlo l’arrivare al punto in cui non si è più in grado di immaginare le conseguenze, pur se non volute, di una politica troppo restrittiva che toglie al cittadino la libertà, il trasformarsi del paese in nazione di controllo e il mettere la generica, semplicistica etichetta con scritto “fascista” sulla giacca di chi si oppone al perdurare dello stato di emergenza. Soprattutto se l’emergenza non finirà a gennaio.
[r.s.]