7 agosto, Hiroshima the Day After. Il pericolo nucleare a cui nessun “G” pensa

07.08.2021 – 10.27 – Che cosa vuol dire, nel 2021, parlare di olocausto atomico? Quali sono le sue probabilità? Perché al G20, o G15 o G8 o G7, non se ne parla mai? Dal 1945, anno in cui gli Stati Uniti scelsero di porre fine alla guerra con il Giappone con due esplosioni atomiche su città prive della possibilità di difendersi da una simile minaccia, sono trascorsi 76 anni; più di una crisi militare si è susseguita, e siamo ancora qui. Per molti di quelli che hanno vissuto quella di Cuba del 1962 a vent’anni, già l’essere ancora qui è incredibile: il mondo, in quell’ottobre compresso in 13 giorni, era dato per spacciato. In alcuni documentari statunitensi e inglesi, negli anni Cinquanta, si impartivano istruzioni ai bambini (suggerendo loro di accucciarsi sotto il banco al suono della sirena e di coprirsi la testa con le braccia fin che il lampo non fosse passato, senza guardarlo) e agli adulti (proponendo loro di scavare un po’ più in fondo, sotto le cantine, e di realizzare un rifugio condominiale nel quale trascorrere una quindicina di giorni con la famiglia fin che un furgoncino, simile a quelli della Protezione Civile italiana in pandemia, non avesse annunciato che si poteva uscire (con uno “state fuori” anziché “state a casa”). Era una follia; non sarebbe servito a nulla. Con le esplosioni sperimentali delle bombe all’idrogeno, via via più potenti, i documentari finirono in soffitta (si trovano però ancora su Internet) e di rifugi non si parlò più, se non di quelli trasformati in resort per super ricchi. E oggi? Ci ha spaventati fortissimamente il Covid-19; che fine ha fatto invece l’incubo del nucleare? È scomparso, e siamo al sicuro?

No, al sicuro non lo siamo per niente. È di poche settimane fa la pubblicazione di un’analisi del Pentagono che sottolinea come la probabilità d’uso di armi nucleari in conflitti regionali (attenzione: regionali, in questi termini, vuol dire anche Ucraina, o Siria, o India e Pakistan) sia in deciso aumento. Il Pentagono sottolinea come questo sia avvenuto “nonostante lo sforzo degli Stati Uniti di ridurre il ruolo delle armi nucleari”; se è vero che dal 2010 nessun altra nazione potenzialmente avversaria, in termini di disarmo, ha fatto il minimo sforzo per arrivare a un risultato degno di nota, non l’hanno fatto neppure gli Stati Uniti, anzi ci si è mossi decisamente nella direzione opposta, pane al pane e vino al vino. La Cina ha almeno 300 testate nucleari, probabilmente di più e sono moderne e potenti; gli Stati Uniti oltre cinquemilaottocento e la Russia ben oltre seimila, molte delle quali antiquate. Quante testate nucleari servono per mettere la sopravvivenza della civiltà in forse, innescando l’Inverno Nucleare? Circa 5000, così si dice, e quindi un confronto Stati Uniti – Russia è tuttora quello che può distruggere il mondo (per distruggere l’Europa di testate ne bastano molte meno). Intendiamoci, l’uomo sopravvivrebbe comunque, ma in un mondo decisamente diverso, e non migliore di quello di oggi.
Le probabilità di una guerra nucleare, anche in Europa, sono cresciute (quelle di una guerra fra Pakistan e India sono già alte da tempo), secondo il rapporto statunitense JP 3-72 dell’aprile 2020: questo accadrebbe come escalation di un confronto con armi convenzionali. Si tratta di un rapporto passato sotto il filtro del “politically correct”, che è di moda: non si trovano più espressioni che inneggiano al “raggiungimento di un risultato decisivo” attraverso l’uso delle armi nucleari in modo da poter “prevalere” nel conflitto, come ha sottolineato la FAS (Federazione degli Scienziati Americani): i tempi della dialettica del generale Curtis LeMay, che sembrava voler bombardare preventivamente tutto e tutti e che ispirò il regista Kubrick, sono passati. Il documento ora è più gentile, si parla di Cina di Russia e d’Iran, non manca la Corea del Nord, e quindi il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti scrive che “le opzioni di risposta nucleare flessibile e limitata da parte degli USA possono giocare un ruolo importante nella ricostituzione del deterrente a seguito di una limitata escalation nucleare avversaria”. Insomma sempre si bombarda, ma in maniera più intelligente e flessibile, se mai si possa immaginare un qualche significato per la parola “intelligente” di fronte all’uso di un’arma nucleare. All’epoca della preparazione della prima bomba all’idrogeno, “Mike”, scienziati e politici statunitensi chiesero di cancellarne la realizzazione perché “come arma semplicemente non aveva senso”: era solo uno strumento d’olocausto, non un’arma utilizzabile contro un nemico. Però Harry Truman, che aveva dato l’ordine di cancellazione di Hiroshima e Nagasaki piuttosto che quello di cancellazione dei progetti nucleari, andò avanti lo stesso. Joe Biden di recente ha tentato di fare ancora un passo in più nei toni rassicuranti: a marzo 2021, ha dichiarato che “gli Stati Uniti eviteranno costose corse agli armamenti, ristabilendo la propria credibilità come leader nel controllo mondiale degli stessi”. A questo scopo ha ripreso le negoziazioni START con la Russia, senza dimenticare però di ribadire che il deterrente strategico USA “rimarrà certo, sicuro, ed efficace”, e che gli accordi con gli alleati mondiali rimarranno “forti e credibili”: quindi il negoziato non si sta andando bene (gli USA vorrebbero inclusa anche la Cina), e non si capisce bene chi per primo, questa riduzione degli armamenti, dovrebbe iniziarla. E ci si dimentica che finora una buona parte di testate atomiche non è stata distrutta, ma semplicemente tolta dal servizio, dismessa (“decommissioned”), ed è ancora lì, pronta ad essere “recommissioned” se serve. Per diverse di queste testate, in particolare per le più piccole a tecnologia più bassa (come alcune bombe e siluri trasportabili non solo dai bombardieri strategici ma dai cacciabombardieri imbarcati e dai sottomarini), l’operazione di messa in servizio è semplice e rapida.

Quali possibilità ci sono, di sopravvivere a un confronto nucleare diretto fra Russia e Stati Uniti? Se ci si vuole ‘divertire’, esistono dei simulatori gratuiti, ma va detto subito: praticamente nessuna, non dove viviamo noi. Meglio sperare di scomparire nel primo istante dell’esplosione, perché la sorte alternativa sarebbe peggiore. Diversa è l’ipotesi del terrorista: in quel caso infatti lo scambio nucleare sarebbe realmente limitato, e i danni circoscrivibili. Il rapporto del Dipartimento della Difesa USA ci tranquillizza: gli Stati Uniti sono pronti e non ci sono rischi che un pazzo o un terrorista possa sfruttare dei ‘buchi’ nel sistema. Ipse dixit. L’11 settembre 2001 ci ha insegnato diversamente, e le registrazioni delle voci degli ufficiali della Difesa americana che non sapevano, di fronte agli aerei dirottati da Al Quaeda, che cosa fare, ci ricordano che viviamo che siamo uomini e donne e abbiamo paura, in un mondo tutt’altro che perfetto, e che i centri di controllo dove non si sbaglia sono solo cose da film. Si studia quindi, più in silenzio, cosa fare in caso di esplosione nucleare ‘sporca’, ovvero attentato: e questo è più realistico, dato che sempre gli analisti ritengono un attentato nucleare in qualche parte del mondo più che probabile. Almeno sei bombe nucleari intere sono scomparse senza essere mai recuperate e l’IAEA, agenzia internazionale per l’energia atomica, parla da decenni di un pericolo che aumenta progressivamente di anno in anno: tonnellate di materiale fissile mancano all’appello. Quanto materiale serve per produrre una bomba atomica come quella di Hiroshima? L’equivalente di sei o sette lattine di bibita gasata. È difficile farla, la bomba atomica? No, una volta capiti i principi di base di quella più semplice si segue un tutorial su YouTube e ci può riuscire uno studente di fisica al terzo anno, se ha un laboratorio (neppure troppo perfezionato) a disposizione.

Nell’aprile di quest’anno, pur continuando a mantenere la maggior parte delle sue forze armate in uno stato di pace, la Cina ha attivato una parte della sua difesa strategica nucleare ponendola in uno stato di “lancio su preavviso”: una strategia di allerta alta già ben nota, che le due superpotenze mondiali per eccellenza hanno sempre utilizzato, l’unica novità è che c’è un attore in più sul palcoscenico. Nel 1966, un bombardiere B52 impegnato in compiti d’allerta del genere si scontrò con un aerocisterna e precipitò a Palomares, in Spagna, seminando alcune bombe all’idrogeno da 70 chilotoni (ciascuna quindi potente più di 6 volte Hiroshima) e un po’ di plutonio nel campi e nel letto asciutto di un fiume; si pensò per anni che nessuna delle bombe fosse attiva o attivabile, poi si scoprì, con imbarazzo, che non era così: una di esse non esplose per miracolo. La nuova accelerazione dei programmi nucleari in molte nazioni, e lo sviluppo dei missili ipersonici, mettono oggi il mondo in una situazione di stabilità molto più incerta, anno dopo anno: allontanano lo spettro della guerra nucleare totale, ma aumentano la possibilità di guerre nucleari localizzate (il perfezionamento stesso dei sistemi antimissile, come l’Iron Dome israeliano, contribuisce a questa instabilità: meglio lanciare prima, se dopo ci sarà il rischio di non poterlo fare più). Le nazioni in genere si sono occupate (poco; comunque meglio di niente) di ambiente e di scelte ‘green’, e hanno scelto di dimenticare il nucleare civile come alternativa nei confronti della fame energetica; hanno anche ignorato completamente gli sforzi e i progetti per il disarmo e per rendere la gestione degli arsenali nucleari più sicura. Soprattutto, i governi non ne parlano più alla gente. Anno dopo anno, di armi nucleari si parla sempre meno; anno dopo anno si fa un passetto in più verso la catastrofe.

[r.s.][l’immagine di testata non è un’elaborazione artistica ma l’esplosione di Ivy Mike, la prima bomba all’idrogeno della storia]