20.03.2023 – 07.10 – Il governo georgiano ha dichiarato il ritiro del disegno di legge sugli “agenti stranieri”, dopo che giorni di proteste hanno animato le strade di Tbilisi. La legge, di chiara ispirazione russa, avrebbe imposto a qualsiasi organizzazione che fosse supportata per più del 20% da finanziamenti esteri, di registrarsi come “agente straniero”. Migliaia di cittadini si sono mobilitati contro quella che hanno percepito come una deriva autoritaria che rischierebbe di vanificare gli sforzi di Tbilisi per aderire all’Unione Europea.
Il video di una donna che brandisce una bandiera dell’Unione Europea mentre viene colpita dal getto d’acqua degli idranti della polizia è diventato l’icona di una generazione di Stati satelliti del revanscismo post-sovietico.
Proprio la “questione russa” – esacerbata dalla guerra in Ucraina – resta uno dei nodi di fondo della faticosa democratizzazione del Paese: dopo il crollo dell’Unione Sovietica e la dichiarazione di indipendenza nel 1991, le regioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale – al confine con la Russia – divennero vittime di conflitti separatisti.
Tbilisi tentò di riannetterle nel 2008, innescando una guerra dagli esiti disastrosi per il Paese, conclusasi con l’intervento e l’occupazione da parte delle truppe russe di un quinto del territorio nazionale. Da allora, le ambizioni filo-occidentali ed europeiste del Paese e le speranze di aderire alla Nato sono di fatto congelate, mentre il consenso per i partiti filorussi, come Sogno Georgiano – che ha proposto il disegno di legge tanto contestato – al potere dal 2012, continua a crescere.
Lo scorso 24 giugno, il sogno europeo di Tbilisi è sembrato sfumare quando il Consiglio europeo ha deciso di concedere lo status di Paese candidato a Ucraina e Moldavia, lasciando invece fuori la Georgia. A convincere Bruxelles dello stop sono stati i ritardi nella riforma della giustizia e i progressi troppo lenti sul fronte della lotta alla criminalità organizzata e alla corruzione, oltre al basso livello di libertà e pluralismo nei media.
Per queste ragioni, è impossibile non cogliere le similitudini tra la condizione georgiana e quella della sorella maggiore Ucraina: entrambe ex repubbliche sovietiche, entrambe incastrate tra gli equilibrismi geopolitici di Est e Ovest, con una porzione non indifferente del proprio territorio nazionale frammentato dai movimenti indipendentisti sostenuti da Mosca.
Ma la parabola georgiana parla anche di un’altra storia, quella balcanica. A giugno saranno esattamente 20 anni da quando il vertice UE-Balcani occidentali di Salonicco ha ribadito il “sostegno inequivocabile” dell’UE alla prospettiva europea dei Paesi dei Balcani occidentali. “Il futuro dei Balcani”, si leggeva nella dichiarazione congiunta, “è all’interno dell’Unione europea”. Da quel giorno, solo due Paesi del blocco regionale sono diventati membri dell’UE: Slovenia (nel 2004) e Croazia (nel 2013, un decennio fa). Altri sei Paesi rimangono esclusi , quattro dei quali stanno negoziando la loro adesione (l’Albania e la Macedonia del Nord hanno iniziato i colloqui nel luglio 2022), mentre la Bosnia-Erzegovina ha ottenuto lo status di candidato e il Kosovo ha presentato domanda di adesione solo lo scorso dicembre. Oltre a questo anniversario, il 2023 marca anche 15 anni d’indipendenza del Kosovo dalla Serbia e 10 anni dall’”Accordo di Bruxelles” che ha normalizzato per la prima volta le relazioni tra Belgrado e Pristina. Dettaglio non indifferente dal momento che a fine febbraio i leader di Serbia e Kosovo hanno accettato il piano dell’UE per un effettivo percorso di normalizzazione tra i due Paesi.
I Balcani, a differenza della Georgia, che afferisce al diretto spazio d’influenza post-sovietica, non sono mai stati una priorità per la politica estera russa in sé, ma sono importanti soprattutto come indicatore della posizione della Russia nel mondo e come estensione della più ampia relazione della Russia con l’Occidente. In questo contesto, Mosca sta utilizzando i Balcani come terreno di scambio per dimostrare di aver recuperato lo status di grande potenza globale ed europea che l’Occidente aveva negato a Mosca negli anni Novanta.
In termini economici e di sicurezza, il blocco occidentale supera il peso strategico della Russia nei Balcani. Tuttavia, il Cremlino esercita tre ampie leve d’influenza in Serbia e, di conseguenza, nell’intera regione: l’energia, l’irrisolta disputa sul Kosovo e il soft power, inteso come l’enorme popolarità di cui la Russia gode presso ampie fasce della popolazione locale.
Sebbene l’aggressione di Kiev abbia spinto l’UE a far avanzare la politica di allargamento in cima nella sua agenda, la comunità sta ancora lottando per rinvigorire i progressi reali, trasformare i candidati in membri validi e impedire l’influenza distorta di attori terzi. Riuscendo a portare a termine con successo l’allargamento nei Balcani, l’UE non solo si riaffermerebbe come attore geopolitico chiave nel suo immediato vicinato, ma ripristinerebbe anche il suo status di potenza normativa in grado di trasformare gli Stati aderenti in democrazie consolidate. Quest’ultimo aspetto sarebbe di enorme importanza anche per i tre Paesi del Partenariato orientale che hanno appena ottenuto lo status di candidato e per rinvigorire una più lontana speranza d’inclusione europea nel caso della Georgia.
La mancanza di forza politica da parte dell’UE nel premere più efficacemente per l’allargamento è stata fino ad ora probabilmente una conseguenza dello stato di crisi poliedrica del funzionamento delle istituzioni democratiche e dello Stato di diritto in alcuni dei Paesi che hanno aderito all’Unione dal 2004. Entrambi questi fattori hanno reso evidente che un ulteriore allargamento dell’Unione verso democrazie deboli e poco inclini a rispettare la legge potrebbe portare alla paralisi del processo decisionale e a ulteriori crisi di unità e fiducia tra gli Stati membri.
La guerra in Ucraina, soprattutto se avrà un esito nefasto per Mosca, continuerà a spingere i Paesi dell’ex orbita sovietica verso partnership con altri attori globali e regionali come l’UE per diversificare il proprio margine di manovra diplomatico, economico ed energetico ed evitare rischiose dipendenze unilaterali.
Non è chiaro se per tutti questi Paesi l’approdo europeo sia una scelta consapevole o una negazione della minaccia russa. Quello che è certo, è che le fondamenta del dominio culturale di Mosca in queste regioni liminari del Noi/Loro vacillano sempre di più.
I leader della propaganda russa parlano spesso di un giusto “mondo multipolare” da contrapporre all’ingiusto “unipolare” desiderato dagli Stati Uniti. Il problema per la Russia è che anche in quel mondo le nazioni avrebbero il diritto di scegliere il proprio polo di riferimento e oggi sembra complicato immaginare che molti Paesi siano disposti ad aderire alla visione del mondo di Putin.
di Arianna Francesca Brasca