14.09.2022 – 08.00 – Certo il problema è la bolletta, e lungi da noi la voglia di sminuirlo; c’è però, fra le tante, una nuova crisi montante, sottotraccia, della quale, fra le proiezioni di vittoria o di sconfitta elettorale (analizzandole, più passano i giorni e più ci si sente oppressi da una sensazione che, ancora una volta, destra o sinistra che sia, nulla cambierà), non sapendo cosa dire, non si parla. Negli ultimi anni, di crisi delle professioni e delle vocazioni – della mancanza di addetti alle professioni specializzate, si è discusso; ogni volta che ci si avvicinava al punto cruciale, per qualche motivo lo si ritrovava poi spostato in avanti, ma la problematica di base resta. La bolla sarebbe dovuta scoppiare già a fine 2019 in settori come quello dell’aeronautica o dell’informatica, e invece l’esplosione è stata rimandata. Oggi, però, la crisi è realtà: a portarla alla luce, l’estate d’incubo vissuta, fra cancellazioni e chiusure, da chi voleva spostarsi in aereo. Sia Airbus che Boeing – i due giganti che dominano il settore, dividendoselo fra una sfida e l’altra – hanno dovuto far fronte negli ultimi anni a enormi ritardi di consegna dei loro nuovi aerei. Se le due società fossero state in grado di recuperare i ritardi in tempo rapidi, il caos aeroportuale dell’estate 2022 si sarebbe verificato prima, e alla base ha qualcosa di molto semplice: non c’è gente. Non ci sono i lavoratori. Per quale motivo la forchetta fra i lavoratori che servono e quelli che si trovano sul mercato si allarga? Anche in questo caso c’è una spiegazione semplice: perché la generazione più numerosa degli ultimi decenni, quella dei baby boomers degli anni Cinquanta e Sessanta, il mondo del lavoro, per limiti d’età raggiunti, sta iniziando a lasciarlo per davvero. Spostare più in là il momento della pensione (lo si è fatto in Italia pesantemente, allungando e di molto l’età lavorativa di chi aveva già iniziato a 15 anni e creando, fra le lacrime di circostanza, ingiustizie e forti squilibri) ha mosso un po’ più avanti anche la bandierina dello start, però ci si arriva comunque: “vecchietti” e “vecchiette” se ne vanno a casa, e la nostra non è stata l’unica nazione a innalzare l’età di pensionamento, se non altro per determinate professioni (restando nell’aeronautica, negli Stati Uniti l’età della pensione per i piloti è stata innalzata da 60 a 65 anni). Man mano che i “vecchietti” della professione se ne vanno a casa, andrebbero sostituiti; la pandemia è stata però il momento in cui numerose aziende specializzate, soprattutto quelle dei trasporti, hanno ridotto rapidamente e in maniera sensibile il loro personale, per tutto il 2020 e il 2021, a causa della distruzione dell’industria dei viaggi e delle forti difficoltà di quella della logistica. E la pandemia si è riflessa anche sulle scuole, sia a causa della didattica a distanza che dell’incertezza su quali conseguenze la pandemia avrebbe avuto: mancanza di prospettive certe per la ripartenza e non sapere quando le misure messe in atto per la pandemia sarebbero finite con pieno rientro alla normalità.
Nell’impossibilità dei ragazzi di pianificare la propria vita e assieme a essa la propria formazione e carriera professionale, le iscrizioni ai corsi specializzati, quelli che formano i tecnici, che si erano mantenute su livelli normali nel 2018 e anzi erano in crescita a inizio pandemia, sono crollate, e non ci sono studenti (pochi nelle scuole superiori – c’è anche la questione demografica – e sono meno anche all’università). È tutto tranne che incomprensibile: val la pena (questa è la domanda) di affrontare, con sacrificio, un percorso di formazione fortemente specializzato, se nel momento in cui, finalmente, avrai conseguito il diploma l’azienda di tecnologia, quella di trasporti, quella di logistica o quella aeronautica licenzieranno ancora? Ci saranno ancora, le navi su cui imbarcarsi per lavoro, o gli aerei? È una certezza che, ai ragazzi, nel fallimento totale della comunicazione durante la pandemia, non abbiamo saputo dare, incollati davanti alle cifre di contagiati e vaccinati e alle zone arcobaleno; e che è svanita definitivamente con lo scoppio della guerra in Ucraina. Che ci sia, prima o poi, una ripresa, di questo siamo certi: ma non sarà nei prossimi anni, e fin che non ci sarà la pace (unica possibile soluzione – che metta la parola fine alla tragedia di oggi, o almeno metta in tregua gli eserciti per aprire un tavolo di negoziato su un conflitto che si sta avvitando sempre più su sé stesso in mezzo ai proclami di vittoria) non siamo neppure in grado di ipotizzare quando. E questa nuova incertezza, ai ragazzi, l’abbiamo trasmessa, e bene.
A differenza di altre crisi del recente passato (l’11 settembre, oppure la crisi finanziaria del 2008), quella di oggi è di tipo nuovo mai prima affrontato, perché non c’è una causa diretta. Non c’è niente di strutturalmente sbagliato (e quindi correggibile dagli specialisti) nelle aziende che ci si trovano in mezzo: i fondamentali, per così dire, del business sono a posto. L’industria stava lavorando molto bene e la pandemia non ha cancellato la domanda – che c’è ancora, è stata solo spostata in avanti nel tempo dai lockdown e dalle misure restrittive, ma è rimasta viva, ed è in alcuni casi cresciuta. Persino nei viaggi business, ad esempio, anche se Zoom e Teams hanno ridotto le occasioni di faccia a faccia sostituendo un mezzo tecnologico all’incontro personale, i viaggi non sono stati azzerati, sono semplicemente cambiati (non si viaggia più in aereo in business class, preferendo alla business un jet privato: un vero e proprio boom, e proprio nel periodo di pandemia). Il personale e la forza lavoro mancano a causa del verificarsi di una condizione esterna che non può essere risolta rapidamente in alcun modo. Ecco perché siamo nella tempesta perfetta: la pandemia non ne è la causa, ma è stata una grande acceleratrice, e l’andarsene dei baby boomers, che spesso hanno scelto (specie nelle nazioni in cui questo è più facile e in professioni come informatica e trasporti) il prepensionamento attraverso fondi privati in mancanza di una data certa di ripresa delle attività (prendendo a sorpresa le loro stesse aziende, che contavano su ancora quattro o cinque anni di permanenza almeno e puntavano come minimo al 2024) ne è l’esempio. E chi, più giovane, in mezzo alla pandemia, ha perso il lavoro che faceva prima, si è dovuto reinventare e di lavoro ha scelto di fare qualcosa d’altro (spesso in un altro settore meno competitivo, o meno stressante – magari nel pubblico impiego), ora non ha intenzione di tornare indietro. E anche questa è stata una sorpresa per le aziende, specie per quelle che uscite dalla crisi non possono permettersi di essere immediatamente attraenti per i loro ex dipendenti da un punto di vista economico: se si aspettavano che, una volta riaperti i cancelli, i dipendenti lasciati a casa sarebbero immediatamente rientrati al costo di una semplice telefonata, sono rimaste deluse. Aggiungiamoci la Brexit (e tutte quelle situazioni che le somigliano – non è un problema solo inglese, è successo anche in Olanda dove mancavano gli addetti alla sicurezza e altrove): se i lavoratori, tipicamente a basso salario, che mancano alla rampa dell’aeroporto e spostano i bagagli non possono essere rapidamente sostituiti con altri venuti da fuori, non è detto che la platea di lavoratori nazionali disponibili sia tale da poter soddisfare le necessità.
Le voci che parlavano di carenza di vocazioni e personale specializzato in molti settori, soprattutto quello industriale, c’erano anche prima, lo si è detto: forse però non si erano levate in maniera sufficientemente forte e non avevano raggiunto la politica, o forse la politica le aveva ignorate. Si fanno più forti oggi, in un momento in cui le soluzioni non sono facili da trovare. Per i piloti una soluzione hanno provato a metterla in atto indipendentemente, visto che la politica è ancora distratta, le grandi società come United Airlines, Ryanair e Lufthansa (che le stava chiudendo), che hanno aperto o potenziato le proprie scuole di volo incentivando economicamente nel modo più ampio possibile i giovani; nell’informatica, l’hanno fatto Amazon, Google e IBM – colossi che possono (e devono) permetterselo, e che però in Italia, dopo aver abdicato come paese a un ruolo di primo piano nelle telecomunicazioni retaggio degli anni Novanta e aver rinunciato (Wärtsilä Italia è solo l’ultimo degli esempi d’insuccesso di una politica, anche locale, distratta da altri temi) a posizioni e know-how strategici in più settori, non abbiamo. Lufthansa e Ryanair vedono l’incentivazione della formazione e il potenziamento delle scuole come un modo, forse l’unico, per prevenire la crisi d’organico, che hanno identificato come un rischio reale per il proseguimento delle loro attività e il mantenimento del business; in Italia, invece, le aziende strategiche si chiudono, cedendo il business al miglior compratore estero, spesso in sconto. Siamo solo all’inizio: l’unica possibile soluzione è quella di spendere, per l’educazione, per le scuole e per sostenere le aziende rendendo più facile per le aziende, attraverso una sensibile riduzione del cuneo fiscale, creare i margini necessari per l’assunzione di nuovi lavoratori da formare internamente, letteralmente strappandoli da altre professioni dove il salario magari è più basso ma le forme contrattuali più flessibili e meno impegnative. Solo le aziende, infatti, affiancandosi agli enti di formazione superiori, sono in grado di farlo rapidamente (la scuola pubblica non lo è), e si dovesse partire domani, per riprendere un po’ il fiato servirebbero almeno quatto o cinque anni in attesa di nuovi ragazzi che usciranno dalle scuole pubbliche fra dieci (c’è un minimo di tempo, in alcuni percorsi di formazione, che è come un gas incomprimibile: puoi fare quello che vuoi, ma gli anni che ti servono per avere un sistemista specializzato o un capitano di macchina o un pilota rimarranno sempre quelli). Sembrano pochi, cinque anni, ma sono un’eternità se la necessità è qui e ora. E ancora una volta c’è bisogno dello Stato.
[r.s.]