22.06.2022 – 09.33 – In Italia e nel mondo continua ad aumentare l’insorgenza dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) durante i primi mesi di ritorno alla “normalità” dopo due pesanti anni di isolamento e restrizioni sociali, con un aumento di casi del 36% e un aumento dei ricoveri del 48%. È quanto riporta uno studio pubblicato di recente dall’International Journal of Eating Disorders.
I DCA rappresentano oggi una vera e propria epidemia dentro l’epidemia, che dilaga in maniera silenziosa e preoccupante tra i giovani, alimentata da una molteplicità di fattori biologici, psicologici e socio-culturali. Stando a uno studio pubblicato lo scorso gennaio da The Lancet, i DCA rappresentano un “hidden burden during the COVID-19 pandemic”, ossia un fardello nascosto, una forma di sofferenza che nell’emergenza sanitaria è rimasta inespressa. Secondo lo studio, la pandemia di COVID-19 avrebbe generato una doppia dinamica nella gestione dei DCA – da una parte ne ha aumentato i casi (soltanto nel 2020, l’incidenza globale dei DCA è improvvisamente aumentata del 15,3% rispetto agli anni precedenti, e il rischio di insorgenza di tale disturbo nelle fasce più esposte è aumentato costantemente da marzo 2020 in poi); dall’altro, ha evidenziato l’urgenza di sensibilizzare la popolazione su questi disturbi.
Uno degli aspetti che contribuiscono all’idea che i DCA sono un “fardello nascosto” è una caratteristica inerente a tali disturbi: in maniera simile ad altri disordini mentali, i DCA sono associati a una forte stigmatizzazione sociale. Spesso vengono percepiti come disturbi “banali” e “autoindotti”, prodotti dell’edulcorata era del fitness e delle palestre; questa percezione giudicante impedirebbe a chi ne soffre di attuare delle strategie di auto-aiuto, con cui portare il problema allo scoperto e condividere la sofferenza con familiari, amici e professionisti. La storia di Ana è rappresentativa. Per alcuni mesi, Ana (nome di fantasia) è stata ricoverata per anoressia in una struttura ospedaliera di Trieste. Dimessa due mesi fa, proprio nel giorno del suo ventiduesimo compleanno, racconta i primi difficili mesi di malattia, vissuti senza confidare il suo malessere ai genitori. “Vomitavo di proposito o saltavo i pasti”, dice. “Avevo paura di quello che avrebbero potuto pensare di me sapendo tutto questo”. Ana si è ritrovata a vivere da sola nei mesi di lockdown, pochi mesi dopo l’inizio della sua vita da fuorisede. Il momento del pasto aveva iniziato a essere “una cosa superflua, che perdeva di senso perché non potevo condividerlo con nessuno”. Ana ha iniziato a mangiare in modo sempre più sregolato e poi a non mangiare affatto. Ma è consapevole che i motivi delle sue restrizioni erano più profondi. “Ho sempre avuto una tendenza a restringermi. Quando sono impegnata, quando voglio portare a termine un compito, posso diventare molto severa con il mio corpo e ignorare i miei bisogni fisici, la fame, il sonno”. Durante il lockdown, la sua “routine militare” si sovrapponeva alla solitudine, alla spirale vertiginosa e uniforme della quotidianità senza contatti; quella quotidianità che tutti noi abbiamo sperimentato. “Se avessi condiviso i pasti con qualcuno durante quel periodo, forse sarei riuscita a gestire il mio problema. All’inizio forse avevo bisogno solo di qualcuno che mi dicesse che stavo mangiando troppo poco, o che mi incoraggiasse a sgarrare di tanto in tanto. Poi è peggiorato tutto”.
La correlazione tra l’isolamento sociale imposto dalla pandemia e gli squilibri alimentari è stata evidenziata più volte negli ultimi anni; in Australia è stato effettuato un sondaggio a livello nazionale, pubblicato lo scorso febbraio sull’International Journal of Eating Disorders. Lo studio ha coinvolto 1723 partecipanti di età compresa tra 16 e 80 anni ha indicato un aumento della preoccupazione per l’immagine corporea (per l’88% dei partecipanti), la restrizione alimentare (74%) e le abbuffate (66%), soprattutto per coloro che già prima dello scoppio della pandemia presentavano un DCA o un disagio mentale come depressione e ansia. Diversi elementi sono stati identificati come particolarmente associati ai disturbi alimentari durante gli ultimi anni: i cambiamenti nella routine, il rapporto con i social media e un accesso limitato a strutture di supporto psicologico. Il tema dell’accesso alle cure pubbliche risulta decisivo nel post-pandemia, soprattutto relativamente a problematiche psicologiche. Anche qualora lo stigma del disturbo alimentare fosse superato e si decidesse di chiedere aiuto, la soluzione più rapida resterebbe il settore privato, nel quale una seduta di psicoterapia può arrivare a costare fino a 150 euro – un servizio inaccessibile per tutte quelle famiglie e singoli che hanno subito le conseguenze economiche della pandemia. Ma in Italia i servizi pubblici che prendano in carico gli aumentati casi di malessere psichico continuano a essere carenti, con una media nazionale di 3,3 psicologi ogni 100mila abitanti, nonostante numerose realtà chiedano a gran voce un allargamento dell’accesso alle cure.
Senza un radicale cambiamento strutturale, lo stigma culturale sui disturbi del comportamento alimentare e i servizi inaccessibili continueranno ad alimentare questa silenziosa epidemia nell’epidemia. Per questa ragione risulta ancora più urgente parlarne e scriverne, in modo da riconsegnare una voce e un ruolo a chi convive con questi disturbi.
di Rossella Marvulli