09.10.21-13.53 – Il 9 ottobre 1963 alle 22.39, in tre minuti, tra Longarone, Erto e Casso, una ‘bomba d’acqua’ spazzò via case, memorie e sogni, portando alla morte di 2.018 persone, tra cui 487 bambini. Tutto ciò succedeva a causa del disastro del Vajont, una tragedia tristemente preannunciata. Più precisamente, una frana dal pendio del Monte Toc si riversò nelle acque del bacino ricavato dalla costruzione della diga. Inizialmente l’acqua tracimò, superando le sponde del lago ed invase prima i paesi di Erto e Casso; poi l’onda derivante dal superamento della diga da parte delle acque provocò un’inondazione catastrofica a fondovalle, una vera e proprio ‘bomba d’acqua’ preceduta da una ‘bomba d’aria’ sul paese di Longarone. A causa della valle stretta nei monti, l’acqua prese ancora più velocità portando a danni spropositati. “Tutti sapevano, nessuno si mosse” scrisse la giornalista Merlin subito dopo la tragedia.
Una delle voci rimaste inascoltate e sottovalutate a tutt’oggi, è stata proprio quella di Tina Merlin. Una donna integra, giornalista e partigiana. Nata a Trichiana (Belluno) nel 1926 da una famiglia di poveri contadini, inizia presto a lavorare per poi unirsi in adolescenza alla Resistenza durante la Seconda Guerra Mondiale. La Merlin si iscrive al PCI, comincia a scrivere racconti e nel 1951 diventa corrispondente dell’Unità, per il quale scriverà fino al 1967. Successivamente si sposa con un comandante delle brigate partigiane ed inizia ad occuparsi dei problemi della montagna.

Proprio in quegli anni, con la costruzione di impianti idroelettrici e dighe, il potere della Sade (azienda elettrica privata di proprietà del conte Giuseppe Volpi di Misurata) aumenta, andando a monopolizzare l’ambito nel dopoguerra. Il progetto originario -di un unico impianto integrato con gli altri delle valli circostanti al Vajont- viene attribuito a Carlo Semenza. Dopo la seconda guerra mondiale, lo specifico progetto Vajont, fortemente voluto dall’azienda, inizia a prendere forma ed i lavori per la costruzione della diga cominciano già nel 1956, un anno prima della completa approvazione ministeriale.
Ma non tutti sono tranquilli: è proprio la Merlin, infatti, che inizia a scrivere degli articoli di denuncia sul pericolo della diga per la valle, preannunciando un disastro ambientale senza precedenti. Già agli inizi degli anni ’50 scrive una serie di articoli per l’Unità sulla prepotenza della Sade nelle zone d’interesse montano, sull’esproprio delle terre dei contadini costretti ad emigrare e sulla messa in sicurezza dei paesi dell’area dolomitica del Veneto. Da qui al Vajont il passo è breve. La tesi della giornalista mira su come l’interesse economico faccia da padrone, manovrando politica e scienza. La compromissione del potere politico con quello economico diventa così profonda e indecifrabile, come spesso avviene tutt’ora, che che alla fine la gente diffida di qualsiasi cosa. La Merlin non solo non viene ascoltata ma, nel 1959, subisce un processo per “diffusione di notizie false e tendenziose” che si conclude con la sua l’assoluzione (grazie alle testimonianze degli ertani e alla prima grande frana caduta nel frattempo). Varie le ragioni dell’accanimento su di lei: principalmente ci sono di mezzo gli interessi economici su una denuncia ‘scomoda’ ma non aiuta neanche il fatto di essere una donna in un mondo lavorativo tutto al maschile, o essere parte di un partito d’opposizione ‘d’impaccio’ per l’epoca. Alla gente però piace perché “era figlia della montagna..parte della Resistenza.. con un approccio diretto e appassionato. (..) É lei a raccogliere le proteste e testimonianze degli abitanti dei paesi limitrofi e a definire “prostituzione scientifica” quella sulla base della quale era stata redatta la relazione tecnica per la costruzione della diga.” Affianca e supporta inoltre gli abitanti nel riunirsi in un consorzio per difendere i loro diritti e superare le loro divisioni.
Con le sue denunce, partono le prime interrogazioni politiche ma le risposte continuano ad essere tutte rassicuranti. Anzi, la Merlin viene sempre più osteggiata ed il progetto, naturalmente, continua. Parallelamente, però, continuano anche le scosse, le crepe. Poi, il disastro: è il 9 ottobre 1963.
Silenzio, morte e desolazione.
Sull’Unità, Tina scrive con il cuore affranto e sensi di colpa per non aver potuto fare di più: “Sto scrivendo queste righe col cuore stretto dai rimorsi per non aver fatto di più per indurre il popolo di queste terre a ribellarsi alla minaccia mortale che ora è diventata una tragica realtà. Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. È tempo di imparare qualcosa”. Purtroppo, pochi si fermeranno realmente a riflettere su quanto accaduto. Si parla di una stampa largamente “imprevedibilista”, sostenente che le cause siano state prettamente naturali.

In realtà, come già scritto due anni prima della tragedia, la giornalista stessa anticipò quello che sarebbe potuto succedere nella valle e documenti e studi geologici dimostrano come l’area era storicamente tutt’altro che stabile [documenti sulle frane passate nella zona risalgono addirittura a Catullo, per proseguire nei secoli successivi fino all’ultima avvenuta prima della tragedia, il 4 novembre 1960. Appena a quel punto si intensificarono gli studi per comprendere meglio la struttura del luogo. ndr]. L’apporto della diga e dell’acqua, hanno impattato radicalmente e violentemente sulla zona, portando infine al triste epilogo. Un disastro anche dal punto di vista naturale, in quanto ci vorranno millenni prima di riavere nelle zone circostanti la vegetazione che c’era prima.

Ancora oggi, a Erto si respira la rabbia, l’indignazione ed il dolore, impregnati letteralmente sulle mura delle case con frasi di denuncia che restano impresse, senza tempo.
Nel frattempo, comunque, il lavoro della Merlin continua: nel 1965, la giornalista è socia fondatrice del Direttivo dell’Istituto Storico Bellunese della Resistenza ma è solo nel 1983 -esattamente vent’anni dopo la catastrofe- che riesce finalmente a trovare un editore che accetta di pubblicare il suo libro-denuncia sul Vajont, sempre rimasto nel cuore della donna, dal titolo: “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”. Un lavoro dettagliato, d’inchiesta e con un’approfondita ricerca delle fonti da vari punti di vista. La Merlin si occupa anche di pubblicare dei volumi dedicati alle lotte degli operai tessili, sempre vicina al popolo e ai suoi diritti. Per quanto riguarda il disastro del Vajont, invece, appena nel 1971 la Cassazione riconosce definitivamente l’accusa di inondazione aggravata dalla previsione dell’evento e solo nel 2000 si conclude definitivamente la causa civile per danni.
Passano gli anni e, dopo un anno di malattia, Tina Merlin si spegne nel 1991. A lei sono dedicate vie a Pedavena e Maniago, un istituto comprensivo a Belluno, oltre ovviamente a spettacoli teatrali e film in ricordo dei deceduti a causa del disastro del Vajont. Nel 1992 si ricorda infine la nascita dell’Associazione culturale che porta il suo nome, come testimonianza del suo impegno civile.. Fra le principali attività, “la difesa delle risorse naturali e la promozione di uno sviluppo sostenibile, con azioni culturali finalizzate a frenare lo sfruttamento indiscriminato del territorio e il degrado ambientale montano”.
Come scrive Marco Paolini, riportando la citazione di Alice Vergnaghi: “le storie non esistono se non c’è qualcuno che le racconta” e Tina Merlin lo fece in modo chiaro e con coraggio, fino all’ultimo.
[.m.p]
Foto Erto e Vajont: Michela Porta
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