17.08.2021 – 08.00 – Qual è il rischio più grande, oggi, per la nostra società? La risposta immediata che arriva è: “la pandemia”. E invece no: è la libertà di pensiero, è il poter parlare e scrivere (e muoversi) liberamente. Mettere a tacere i dissidenti (e i giornali che danno loro spazio) è lo sport principale delle dittature (più in generale, dei governi poco democratici di qualsiasi tipo), e se un giornalista (più in generale, un cittadino) si azzarda a manifestare un’idea (attenzione: non stiamo parlando di Fake news, ma di idee) diversa da quella del pensiero che si vuole come ‘giusto’, viene sommerso di critiche, insultato, silenziato, emarginato. E, non in pochi casi se ricordiamo gli anni di mafia e terrorismo, fatto sparire.
Quando la voglia di libertà s’indebolisce, in modo direttamente proporzionale si riduce anche il numero dei giornali: se essi non si riducono spontaneamente, certamente si cercherà di ‘dar loro una mano’. Si ricordano poco, oggi (eppure erano solo tre anni fa) le minacce dirette del Movimento 5 Stelle ai giornalisti: Luigi Di Maio, Rocco Casalino. “Devono farsene una ragione”, risposero Lorusso e Giulietti a nome dei giornalisti, “non sono gli attivisti del Movimento a stabilire che cosa è vero e che cosa è falso”. Erano tempi in cui il Coronavirus non era ancora all’orizzonte. Nessuno o quasi, fra i politici, parla in queste settimane del disegno di legge del governo polacco che potrebbe comportare l’interruzione dell’attività dei media indipendenti (e non sono rimasti molti) critici nei confronti dell’amministrazione Morawiecki: ufficialmente si tratta di una legge volta a impedire che le aziende con sede legale al di fuori dell’Unione Europea possano detenere la maggioranza e quindi il controllo di un editore polacco, ma indirettamente l’azione colpisce i giornalisti che più hanno alzato la voce contro “Diritto e Giustizia”, il partito cattolico conservatore di destra di Morawiecki stesso, che sta riportando la Polonia a una situazione definita da molti parlamentari UE, nell’imbarazzo, incompatibile persino con la permanenza nell’Unione, soprattutto per quanto riguarda i diritti civili e quelli della donna. È accaduto in Francia con Macron, accade in Austria con il Centro cattolico: l’opporsi alla libertà di pensiero non è una prerogativa della destra, in una parte di Lombardia carriera la si faceva solo andando a una certa messa e per decenni una sorta di maoismo della cultura italiana ha di fatto impedito l’accesso a ruoli e professioni a chi “non era un compagno”. Non stiamo parlando di nazioni di un remoto terzo mondo ma di una comunità di cittadini, quella europea, che bombardata da misure e contromisure sanitarie e assillata da paure e difficoltà (alle quali i governi, chi più chi meno, non hanno saputo dare giuste risposte), trova difficile mettere la libertà dell’individuo al primo posto. Ed ecco che se la libertà deve fare un passo giù dal podio, questo passo lo fanno anche i giornali assieme a chi scrive e a chi continua a voler portare avanti una sua idea anche quando suona in modo diverso. Il cittadino d’altra parte vuole parole e vuole tornare alle cose com’erano prima, non vuole chiacchiere sulla libertà, e non è troppo difficile ingannarlo, specie se a tessere le trame di una comunicazione parallela sono esperti e professionisti ben pagati che lavorano sui Social fuori da qualsiasi regolamentazione e deontologia. Sui Social, muovere masse costituite in primo luogo dalla disillusa generazione del Sessantotto (importante anche dal punto di vista dei numeri e quindi dei potenziali voti) è oggi ancora molto facile: questa generazione del Boom che oggi ha dai cinquanta ai settant’anni dai rischi di Internet, alla quale chi scrive appartiene, non si è ancora vaccinata, e chi di mestiere ha scelto la politica sa che alimentare la distrazione attraverso gli Influencer vicini al partito e i Social, cercando di togliere nel frattempo ossigeno alle altre voci, è un’opportunità assolutamente da cogliere.
E del resto parlar male degli “infimi sciacalli” giornalisti come faceva Di Maio è anche facile: la stampa, nel corso di tutto un 2020 trascorso a rilanciare allarmi e statistiche di morti mentre i click pubblicitari andavano su, ci ha messo del suo e continua a mettercelo. Oggi, rispetto al 2020, la curva dei click è andata molto più giù di quella dei contagi (ed è un gran bene: più siamo, a fare i giornalisti sul Web, e meglio per la libertà è), e gli “underperforming”, incubo delle agenzie di marketing – quegli annunci pubblicitari che hanno reso molto meno del previsto in termini di visite – si susseguono a raffica, facendo sobbalzare i capi redattore: c’è necessità quindi di spingere ancora il pedale sull’acceleratore della negatività, perché è quella che rende di più, come il pezzo di nera con i due ragazzi morti con la foto di lei in primo piano. Il giornalismo italiano, rispetto al 2018, in termini di credibilità e fiducia ha perso piuttosto che guadagnare. Il populismo non è solo un elemento di un tipo di politica: di populista c’è anche un certo giornalismo, che non si preoccupa di ricercare la correttezza e fondatezza di una notizia ma fa di tutto per riempire le pagine Web rispondendo all’esigenza del lettore, qualsiasi essa sia. Spesso, in tempo di crisi, il populismo giornalistico è quello più apprezzato, perché assieme a quello politico fornisce risposte immediate al popolo stesso scrivendo esattamente quello che vuole leggere (anzi, spesso scrivendo dopo aver visto che riscontro ha un post su Facebook). Di Donald Trump, causa principale della sconfitta del Partito Repubblicano USA e campione dell’antigiornalismo contemporaneo, non parleremo: se non tutto quello che Trump diceva era sbagliato una volta letto nel contesto opportuno e in un momento in cui il mondo fronteggiava una situazione senza precedenti (e non lo era), l’incapacità dell’ex presidente di accettare opinioni diverse dalla propria e il suo modo di reagire attaccando in particolar modo la stampa hanno fatto scuola. E causato la sua rovina. Quale sarà il destino della libertà di pensiero da qui a dieci anni non lo sappiamo né è facile immaginarlo: la pandemia è stata la tempesta perfetta. Chi cerca di pubblicare notizie sostenute da numeri certi e da fonti si trova di fronte a un muro, pronto a farlo rimbalzare nel nome di “tempi eccezionali, decisioni eccezionali”, e a gruppi Facebook dove la parola viene semplicemente tolta. Le idee e i richiami a una politica moderata, fatta di discussione e confronto che possono poi portare a un consenso, non vanno per la maggiore. “Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”: questa la sfida, la più grande, che gli eredi degli anni Covid-19 affronteranno.
[r.s.]