13.07.2021-07.00 – Sono passate diverse ore da quando il tiro dal dischetto di Saka parato da un Donnarumma meraviglioso ha incoronato gli azzurri campioni d’Europa per la seconda volta nella propria storia, 53 anni dopo quello che finora era stato l’unico successo azzurro in un Europeo e a 39 anni esatti di distanza dalla finale del Mundial di Spagna vinta contro la Germania Ovest. Un momento lunghissimo, a chiusura di una partita in cui gli azzurri hanno sofferto il gol subito a freddo, ma non hanno mai perso la lucidità e hanno fatto la partita, mettendo sotto sia sul piano del gioco che su quello delle occasioni l’Inghilterra di Southgate.
Come contro la Spagna, non bastano i 90’ e nemmeno i tempi supplementari per determinare la vincitrice dello scontro. Eppure, la coppa s’ha da vincere e gli azzurri lo sanno bene. Lo sa bene Berardi, primo rigorista dei cinque della serie finale, lo sa bene Donnarumma (eletto miglior giocatore del torneo), lo sa bene Mancini, visibilmente teso mentre osserva dalla panchina lo svolgimento dei tiri di rigore. Ecco, Mancini. La tensione, soprattutto nelle ultime due partite, c’è stata visibilmente anche per lui, che tuttavia non ha mai smesso di dare la sensazione che tutto fosse sotto controllo, che tutto stesse andando secondo una sorta di canovaccio che lui aveva tracciato in mente. Non solo durante le partite, nossignore: la vittoria di questo Europeo, il primo (e, stando a Ceferin, unico) itinerante della storia, Mancini pareva averla già vista quel giorno di maggio del 2018 quando, dopo la fine della sua esperienza allo Zenit San Pietroburgo, Mancini veniva posto dal commissario straordinario della FIGC Fabbricini a guidare la rinascita azzurra, dopo che la Nazionale aveva toccato il punto più basso della propria storia calcistica con la mancata qualificazione ai Campionati del Mondo in Russia.
Ecco, partiamo da quel doppio spareggio contro la Svezia: allora sulla panchina azzurra siede Ventura e in Nazionale giocano ancora Buffon, Barzagli, De Rossi, Parolo, Eder; il compianto Astori è presente in quella rosa, di cui fanno parte anche Spinazzola, Bernardeschi, Verratti, Immobile, Insigne e Belotti. Tutti giocatori che oggi possono vantare nel proprio personale palmarés un titolo che solo pochi altri calciatori italiani hanno vinto nella propria carriera, ma che in quel novembre del 2017 erano ancora delle promesse incompiute. Il doppio disastro contro la Svezia (che fu considerato, all’epoca, il fallimento individuale di Ventura, ripudiato dai suoi stessi giocatori già da qualche mese e, a un tempo, il segno della crisi dell’intero sistema calcio italiano) pareva aver certificato definitivamente l’avvenuta decadenza del calcio italiano, ormai incapace di produrre risultati di livello o, quantomeno, giocatori di qualità.
Mancini (che subentra a Di Biagio, ct ad interim degli azzurri tra novembre e maggio) trova davanti a sé una situazione che avrebbe scoraggiato chiunque. Ma non lui: lui che ha “creato” il Manchester City ormai più di una decade fa (certamente aiutato dai denari dello sceicco), lui che ha rilanciato l’Inter in due diversi momenti della carriera, lui che ha raccolto da allenatore esordiente Fiorentina e Lazio sull’orlo del fallimento portandole a vincere una Coppa Italia ciascuna, proprio lui non poteva certo tirarsi indietro di fronte all’opportunità di ricostruire la Nazionale. Che per il Mancio giocatore era stata una ferita aperta, dal momento che con la maglia azzurra le soddisfazioni erano state poche per lui, anche per via di un carattere molto fumante, smussato dagli anni e dalle esperienze in giro per il mondo, soprattutto in Inghilterra.
Mancio non si tira indietro, anzi. Come nelle sue esperienze con i club, non si lascia influenzare nelle scelte e costruisce un gruppo che, all’epoca, fa sorridere pressoché tutto il pubblico con sarcasmo: sarà mica impazzito Mancini a far giocare con la Nazionale giovani imberbi che non hanno praticamente mai messo piede in Serie A, tipo Zaniolo, o che non hanno alcun tipo di esperienza su grandi palcoscenici, come Barella? Mancini non si lascia condizionare e va avanti per la sua strada, costruendo quello che, tre anni dopo, diventerà un gruppo affiatatissimo, capace di giocare un gran bel calcio, ma anche di tirare i remi in barca e puntare a difendersi (anche senza guanti bianchi…) quando serve. Di giocare e vincere partite dominate così come partite soffertissime. Di superare diversi record (imbattibilità, porte inviolate, vittorie consecutive…) che resistevano da decenni e di diventare una vera e propria macchina vincente.
Sì, i calciatori hanno fatto un grande Europeo e un grande percorso, negli ultimi tre anni, e a loro vanno dati tutti i riconoscimenti possibili. Ma è impossibile non vedere nella vittoria azzurra a EURO2020 i grandissimi meriti di Mancini: il 90% di questo titolo è suo, perché lui (insieme al suo staff, che è praticamente lo zoccolo duro della Samp scudettata del 1991, con Vialli, Salsano e Lombardo) ha saputo ridare un’identità alla Nazionale, rendendola veramente un gruppo, un collettivo (quello che più di tutto mancava all’Italia, e non solo nel calcio) nel quale tutti i tifosi hanno creduto. Altro merito di Mancini: quello di aver saputo riconquistare alla Nazionale l’affetto dei tifosi, un po’ raffreddatosi dopo le delusioni degli ultimi anni. Insomma, dopo che tre anni fa si era celebrata la cerimonia funebre del calcio italiano, oggi ne celebriamo la compiuta rinascita. E il merito è del taumaturgo mister Mancini.
[e.r]