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Internazionalizzazione, un bene per l’Italia? Minon (Finest): “Maggior possibilità di sopravvivenza per le imprese”

29.06.2021 – 08.30 – Nel 1989 cadeva il muro di Berlino: scompariva quella “cortina di ferro” che Churchill nel 1945 aveva definito come passante attraverso Lubecca, Trieste e Corfù, e con i rapporti di forza irreversibilmente mutati tra le grandi potenze dell’Est e dell’Ovest il mondo cambiava per sempre. In questo contesto, due anni dopo, con la Legge di Stato 19/1991 e una dotazione di 300 miliardi delle vecchie Lire, nasceva la finanziaria Finest, con sede a Pordenone, allo scopo di fare da “ponte” ed aiutare le aziende del Triveneto – Friuli Venezia Giulia, Veneto e Trentino Alto Adige – a crescere. La scomparsa dei due blocchi aveva lasciato spazio alla nascita di nuove economie e ad una sempre più pregnante necessità di avvicinare quelli che fino a poco tempo prima erano due mondi tra loro non comunicanti. L’aspettativa del tempo era quella di poter acquisire un’enorme ricchezza grazie a questi nuovi mercati, tramite lo sviluppo di relazioni economiche e commerciali con i paesi dell’ex blocco sovietico, costituendo nuove imprese, sviluppando reti commerciali, stabilimenti, centri assistenza, distribuzioni e partnership in quei territori (e dal 2016 in poi anche in tutti i paesi bagnati dal mar Mediterraneo e l’Austria). Un acceleratore e facilitatore di quello che oggi viene definito come il processo di internazionalizzazione dell’impresa. Cosa significa esattamente, però, per l’impresa stessa e per l’Italia, internazionalizzare un’attività? Ne parliamo proprio con il presidente di Finest, Alessandro Minon.

Innanzitutto, cosa s’intende quando si parla d’internazionalizzazione? 

“Chiaramente l’obiettivo di un’azienda e l’interesse dell’imprenditore è quello di crescere e di fare profitto. Detto questo, ci sono vari modi di internazionalizzare: ad esempio un’azienda che ha un prodotto vincente può decidere che i tempi sono maturi per distribuirlo sui mercati esteri: l’investimento può allora essere motivo per la creazione di una rete del prodotto. Oppure, un’azienda può decidere di utilizzare determinate competenze specifiche per fornire dei servizi anche all’estero; o ancora, può decidere di approvvigionarsi di materie prime in altri paesi. Possiamo immaginare, ad esempio, un’azienda che produce mobili e il semilavorato lo fa in Macedonia o in Serbia, lo fa arrivare in Italia, e qui fa la lavorazione, il design, ricerca e sviluppo”.

Sarebbe realistico pensare di fare tutto in Italia?

“Purtroppo, non tutto è facile da fare nel nostro paese. A volte è più importante, in modo realistico, partire dall’idea di fare, e bene, quello che si è in grado di fare: nel nostro caso, in Italia, si tratta del cosiddetto valore aggiunto – ricerca e sviluppo, manifattura, design, marketing. Allo stesso modo ci sono però della fasi della lavorazione che è fallimentare pensare di poter svolgere nel nostro paese perché getterebbero l’impresa fuori mercato, in quello che oggi è un mondo altamente competitivo. Un’azienda che pensasse di completare tutto il ciclo produttivo sempre in Italia, anche sulle parti a più basso valore aggiunto, diventerebbe talmente poco competitiva che finirebbe per mettere a rischio la stabilità dei posti di lavoro. Non a caso infatti, in questo contesto, si parla di catene globali del valore”.

Di che cosa si tratta?

“Facciamo l’esempio dell’industria automobilistica: a livello logistico e organizzativo, per arrivare al prodotto finito, vi è la partecipazione di decine e decine di aziende in diversi paesi del mondo; noi acquistiamo un’automobile che magari viene assemblata in Italia, ma la sua componentistica proviene da numerosi altri paesi. Per arrivare al prodotto finito con la massima efficienza, tutti devono seguire le medesime regole in termini di qualità, tempistiche, collaborazioni, interscambi e informazioni. Il risultato finale è eccezionale: la qualità dei beni cresce e il loro costo si abbassa. Queste sono le catene globali del valore”.

Dal punto di vista di un’azienda, perché questo dovrebbe essere più vantaggioso rispetto al rivolgersi direttamente ad un subfornitore estero? Valutando direttamente l’offerta migliore quando ne ha bisogno?

“Il subfornitore produce quelle che vengono definite ‘commodity’: sono quei beni, merci e materie prime che sono beni indifferenziati. Una tonnellata di ferro con delle specifiche rimane una tonnellata di ferro a prescindere da chi la produce, quindi conta solo il prezzo. Ma nella catena globale del valore l’azienda non è un subfornitore a cui occasionalmente viene chiesta un’offerta; al contrario, entra a far parte di una catena di progettazione, dello studio e dell’organizzazione. L’impresa quindi sa, ad esempio, che per i prossimi tre anni dovrà investire per passare da una produzione all’altra perché potrebbero cambiare gli standard, e sa già anche quale sarà il prezzo a cui potrà vendere il prodotto, fa le proprie valutazioni sugli investimenti da fare, avrà maggiori certezze e maggiori margini, e ovviamente anche più regole da rispettare. In parole semplici, si fa squadra e il valore aggiunto finale viene distribuito in modo da dare beneficio a tutte le aziende facenti parte della catena globale del valore, che a loro volta hanno potere contrattuale”.

Non c’è però il rischio che un’azienda che si interfaccia con i mercati esteri, ad un certo punto, decida di delocalizzare per mera convenienza? 

“Premesso che, come Finest, il nostro scopo è fare in modo che si creino occupazione, investimenti e competenze in Italia e, non da ultimo, maggiori entrate in termini di tasse, di fatto, qualunque azienda con il suo denaro può fare quello che vuole e spostarsi dove vuole. Quindi il rischio c’è sempre, a prescindere. Tuttavia, quello che abbiamo notato è che molti imprenditori, soprattutto nel nordest, pur consapevoli delle criticità e delle difficoltà che si hanno spesso ad operare nel nostro paese, hanno comunque un forte desiderio di rimanere ancorati al territorio. Poi è chiaro che le esperienze imprenditoriali all’estero servono anche a generare una critica costruttiva; alcune cose si possono fare meglio in Italia e altre no, ma io credo che questo possa essere visto anche come un’opportunità”.

Un’opportunità in termini economici per l’Italia?

L’internazionalizzazione ha trasformato in potenze altri paesi, penso alle multinazionali statunitensi che si sono espanse in tutto il mondo con fatturati incredibili. Sicuramente una gestione corretta dell’internazionalizzazione genera una crescita economica e un incremento di prestigio e, perché no, anche un incremento del potere di un paese.
L’internazionalizzazione vista invece nella sua accezione più limitante, che è quella della delocalizzazione, di sicuro non fa il bene di uno stato. Possiamo dire che in un mondo così strettamente interconnesso, i cui confini tendono a essere dal punto di vista economico sempre meno resistenti, è difficile pensare a delle aziende di successo che crescano riuscendo a svolgere tutte le diverse fasi di produzione solo nel proprio paese. Preso atto di ciò, bisogna fare in modo che questo faccia il bene dello stato – creando occupazione e crescita – piuttosto che il male”.

Cosa sarebbe necessario cambiare?

“In questo contesto, importante è secondo me il concetto di ‘sistema paese’: l’Italia può smettere di perdere posizione, e consapevolmente recuperarla, solo se vi è una stretta sinergia tra pubblico e privato. Il concetto è che lo Stato non sia più percepito dalle imprese come un ‘nemico’ che preleva denaro sotto forma di tasse, ma che le aiuti invece a crescere, ad esportare e a svilupparsi traendo a sua volta beneficio da questo. Un paese più competitivo di conseguenza potrà abbassare le tasse e contemporaneamente aumentare l’efficienza e la voglia di investire sul territorio. Credo quindi dovremmo migliorare l’operatività del ‘sistema paese’ italiano, perché se è vero che ci sono cellule distinte, è anche vero che alla fine l’organismo è unico. Più semplicemente, se non cresce il sottostante economico non cresce il paese; per questo ritengo molto importante anche il ruolo di Finest: possiamo essere un anello di interfaccia fra la parte dello stato che opera con la volontà di crescita e di efficienza e che si relazione con il privato, ed il privato che a sua volta si relaziona con lo stato, attraverso il dialogo e non una contrapposizione”.

“Ogni territorio deve fare leva sui propri punti di forza per attrarre chi fa impresa. Nella nostra regione il livello di qualità della vita è molto elevato, c’è una buona sanità, una velocità della giustizia notevole, si reperiscono tecnici e ricercatori qualificati a un costo competitivo rispetto ad altri paesi, con una concentrazioni di istituzioni scientifiche che aumenta anche l’efficienza di questi processi ed una formazione universitaria di altissimo livello. Quindi sicuramente è un territorio che può avere molta attrattiva dal punto di vista delle scienze e delle aziende altamente tecnologiche – a tal proposito abbiamo visto il ritorno in regione di Neurala. A questo si aggiungono altri fattori, la posizione geografica e la stretta vicinanza ai confini, il porto internazionale. Insomma, pur essendo una regione di piccole dimensioni abbiamo del potenziale, forse dovremmo trovare il modo di sfruttarlo ed esprimerlo un po’ di più”.

Il fenomeno dell’internazionalizzazione è irreversibile?

“Possiamo pensare sia un fenomeno tendenzialmente inarrestabile: è sempre in incremento, con variazioni di intensità, di concentrazione, di localizzazione e di modalità. Se guardiamo al quadro odierno però assistiamo ad una sorta di reshoring – il rientro verso la propria nazione – delle imprese, se non direttamente verso il proprio paese d’origine, comunque verso l’Europa. Un esempio è quello riguardante le aziende che fanno produzione in Cina, che si riavvicinano nuovamente al vecchio continente o, al contempo, di attività con sede nei paesi asiatici che decidono di insediarsi nei paesi europei”.

Come ha influito, sullo scenario internazionale, il Covid-19?

“Il Covid ha interrotto l’attività lavorativa in molti paesi, mettendo a dura prova la logistica e le gerarchie delle aziende: dai trasporti delle merci fino ai beni lavorati. La pandemia ha però al contempo reso evidente come un’azienda che abbia più sedi e stabilimenti all’estero, a fronte di una crisi come quella attuale, sia molto più resiliente: le regole che sono state messe in atto da nazione a nazione sono state profondamente diverse. Certi paesi, per esempio, hanno continuato a produrre comunque, e grazie a questo molte imprese italiane sono riuscite a garantire le forniture ai propri clienti. Per fare ancora un esempio, un’azienda che faceva assemblaggio in Italia e in Croazia, nel momento in cui l’Italia era bloccata, continuava ad assemblare in Croazia, aumentando quindi le possibilità di sopravvivenza della sua attività”.

Quale insegnamento si può trarre dall’esperienza della pandemia?

“Ritorniamo al concetto delle ‘catene globali del valore’, che possono essere una grandissima opportunità per le aziende, ma anche un rischio: se un’azienda entra in una catena del valore, ma non è in grado di fare delivery ovvero consegna e distribuzione di beni, è destinata a dover chiudere, perché nella catena non rientrerà più. Fondamentale è stato, infatti, che nel momento peggiore del lockdown lo stato italiano abbia consentito alle aziende esportatrici, in deroga, di continuare ad operare all’interno delle catene del valore in modo da non interrompere la produzione, e questo ci ha permesso di non venirne estromessi. Inoltre, con il Covid il mondo è cambiato completamente anche dal punto di vista delle comunicazioni e degli spostamenti: le aziende che si sono adeguate, tanto sul piano tecnologico che nella gestione e nell’organizzazione, introducendo nuovi modelli lavorativi, sono diventate ancora più efficienti di prima; chi non lo ha fatto si trova invece oggi in forte difficoltà”.

Da un lato il mondo della grande finanza; dall’altro, la realtà della singola impresa: come si fa a mediare efficacemente tra le due parti?

“Da un lato è necessario saper comprendere le istanze della traslazione della politica economica delle regioni sul territori, nonché parlare la lingua degli imprenditori, comprendendo appieno le loro problematiche. Al contempo, vanno però compresi anche i meccanismi delle partecipazioni societarie, perché nel fornire supporto e investimenti bisogna anche essere in grado di discernere: uno dei principi di base è che Finest gestisce denaro pubblico, ed è quindi fondamentalmente saper mantenere il delicato equilibrio tra l’apportare il massimo beneficio possibile e contenere il rischio. Che, quando si investe, c’è sempre. Detto questo, la gran parte delle persone è slegata dal mondo della grande finanza, e la maggior parte degli imprenditori sono uomini che operano sul campo, in prima linea. Non bisogna quindi dimenticare che le scelte che vengono fatte a certi livelli si ripercuotono alla fine sulla vita privata del singolo: ogni persona che ha un buon posto di lavoro, nel concreto, significa una famiglia che sta bene, che magari può permettersi di aprire un mutuo per acquistare la propria casa o mandare i figli all’università. E anche per questo ogni operazione che riusciamo a fare come Finest, e che ci fa poi vedere un’azienda che assume, che va avanti e che cresce, è sempre una grande soddisfazione”.
[n.p.]

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