Balcani Occidentali
18.05.2021-10.00 – Serbia-Nato: Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha dichiarato che “una grande potenza” non meglio specificata avrebbe proposto di ritirare la missione Nato in Kosovo (Kfor).
Perché conta: La notizia è stata poi smentita dalla Nato, ma come sempre Vučić è riuscito a crearsi una crisi ad hoc per riscaldare la propria base elettorale e proiettarsi come difensore dei serbi oltreconfine. Secondo il presidente serbo, che ha sostenuto di aver ricevuto questa informazione dall’intelligence, il ritiro della Nato sarebbe una “catastrofe assoluta” per la Serbia: la minoranza serba in Kosovo rischierebbe così di trovarsi alla mercé degli estremisti kosovari. Una ricostruzione lugubremente simile a quella espressa da Slobodan Milošević a fine anni ‘80, interpretata come un preludio alla campagna di pulizia etnica. Sempre secondo Vučić, il governo kosovaro avrebbe stanziato un budget di 100 milioni di euro per l’esercito, molto più di quanto previsto da Belgrado. Implicitamente, l’autocrate serbo ha quindi anche alluso alla necessità di aumentare le spese militari per rispondere alle mosse kosovare, un messaggio dal tono belligerante. La Kfor è una forza di peacekeeping internazionale guidata dalla Nato, dislocata in Kosovo fin dal 1999 (risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu). Negli anni questa missione ha gradualmente ridotto le proprie attività, trasmettendole via via alle autorità kosovare. Belgrado si oppone al ridimensionamento e ancora di più al ritiro della Kfor per un motivo molto preciso: la partenza dell’Alleanza atlantica significherebbe un passaggio decisivo verso la costituzione definitiva di uno Stato kosovaro. Pristina eserciterebbe infatti il monopolio della violenza su tutto il territorio, prerogativa di uno Stato compiuto. E la Serbia teme questo scenario soprattutto perché sa che è ineluttabile. L’attuale status quo difficilmente potrà reggere a lungo. Le affermazioni del presidente serbo, molto probabilmente infondate, mostrano come l’assetto dei Balcani occidentali, frammentato da molte crisi tuttora irrisolte, sia perennemente strumentalizzabile da leader intenzionati a riaprire – almeno retoricamente – le faglie inter-etniche per i loro fini politici. Qualcosa di simile lo si è vissuto negli scorsi mesi, quando un fatidico “non paper” che delineava un riassetto della regione tramite l’aggiustamento dei confini, apparentemente diffuso dal governo sloveno, ha allarmato le cancellerie dei paesi Ue e galvanizzato i vari aspiranti secessionisti dell’area, come il rappresentante serbo della presidenza tripartita della Bosnia Erzegovina Milorad Dodik.
Per approfondire: “La Serbia deve ancora risolvere i danni dell’era Milošević”. Vuk Vuksanović, esperto di geopolitica serba
Montenegro – Serbia: Il paese adriatico si sta preparando ad attuare il primo censimento dal 2011, inizialmente previsto per aprile ma poi posticipato.
Perché conta: Come suggerisce il fatto che sia stato rimandato, il censimento arriva in un momento politicamente molto delicato per la piccola repubblica adriatica. Oggi definirsi “montenegrini” o “serbi” in Montenegro è una scelta politicamente sensibile, essendosi i rapporti tra le due comunità molto deteriorati negli ultimi due anni, a fronte delle tensioni emerse tra la Chiesa ortodossa, tradizionale voce della minoranza serba, e il precedente esecutivo guidato – di fatto – dal presidente del paese Milo Đukanović. Per questo il censimento sarà un campo di battaglia: i numeri contano. L’attuale esecutivo è sostenuto da una maggioranza risicata, variopinta e litigiosa, che pare volteggiare sull’orlo di una crisi politica ad ogni occasione utile – nomine controverse, elezioni amministrative, dilemmi di politica estera. In questa maggioranza la parte del leone la fanno le forze filoserbe che sognano un riavvicinamento tra Podgorica e Belgrado e, più in generale, una maggiore tutela delle istanze dei serbo-montenegrini. Sicché risulterebbe molto gradito all’esecutivo che il censimento fotografasse un aumento della fetta di popolazione che si autodefinisce di nazionalità serba. Secondo l’ultima rilevazione (2011), questa comunità rappresenta grosso modo il 29% dei circa 622 mila abitanti della repubblica adriatica. Se questa percentuale risultasse incrementata, si esacerberebbero probabilmente gli attriti tra i nazionalisti montenegrini, denominati “komiti” dal nome di una compagine di banditi che imperversava in Montenegro durante l’Impero ottomano, e i loro compatrioti serbi. Dallo scorso agosto, quando le urne hanno certificato la vittoria del fronte delle opposizioni, i “komiti” paventano la “serbizzazione” del Montenegro. Scattano in stato di allerta ogni qualvolta sembri che le autorità favoriscano la minoranza serba. Sono insorti nuovamente lo scorso marzo, quando il premier Zdravko Krivokapić ha aperto alla possibilità di garantire il diritto alla doppia cittadinanza, al momento negato in Montenegro. La stragrande maggioranza degli eventuali beneficiari sarebbero i serbi che vivono nel paese.
Per approfondire: Le ragioni del cuore e quelle della Realpolitik nel nuovo Montenegro [Limes]
Europa Centrale
V4: Polonia, Ungheria, Slovacchia e Cechia hanno lanciato una coalizione “pro-famiglia”.
Perché conta: Per cogliere la forma mentis dei promotori risultano auto-esplicative le dichiarazioni, pur vaghe, del premier polacco Mateusz Morawiecki: “per noi la famiglia è la base. Una società senza le famiglie sarebbe come la matematica senza i numeri. Famiglia significa anche trasmissione di valori. È in famiglia che si sviluppano sentimenti fondamentali come l’empatia e il desiderio di amare. La famiglia e lo Stato sono le due più grandi creazioni dell’umanità”. Questo lo spirito che anima dell’iniziativa. L’obiettivo concreto è provare ad arrestare l’emorragia demografica. Come tutta l’Europa centro-orientale e i Balcani occidentali, i quattro paesi mitteleuropei stanno affrontando una grave crisi demografica. A meno di novità sostanziali perderanno una quota molto ampia della popolazione (attorno al 10%) nei prossimi trent’anni. Il provvedimento più ambizioso messo in campo dal governo polacco per fronteggiare questo calo demografico è stato il programma “500+”, che prevede l’assegnazione di 500 zloty (circa 120 euro) al mese per ogni figlio fino al conseguimento della maggiore età. Morawiecki ha elogiato il provvedimento come un efficace rimedio alla diminuzione della popolazione. Tuttavia, i dati mostrano che il programma “500+” può essere servito come strumento redistributivo, una forma di sostegno al reddito per le classi più povere, ma non ha davvero incentivato sensibilmente le nascite. Il numero dei nati nel 2020 in Polonia (355 mila) è stato il più basso dal 2003. Il tasso di fertilità delle donne polacche si attesta ancora all’1.42%, ben inferiore a quel 2.1% che garantirebbe un pur lieve aumento della popolazione. Inoltre, il varo di questa coalizione punterebbe anche a promuovere i valori tradizionali e l’opposizione all’ideologia “gender” nell’Ue. Varsavia aspira a mettersi alla testa di un blocco conservatore che contesti le politiche sui diritti civili promosse da Bruxelles. Come in altre iniziative annunciate dal governo polacco, a volte in tandem con quello ungherese (si veda il tentativo di fondare un Istituto per monitorare lo Stato di diritto nell’Ue), pare probabile che, spente le luci, gli altri Stati aderenti si sfilino senza fare troppo rumore. La Polonia ha la taglia ma ancora non il capitale politico per agire da egemone regionale.
Per approfondire: L’Europa orientale si sta spopolando ma nessuno se ne accorge [Internazionale]
Slovacchia – Ungheria: Anche se potenziare il collegamento tra le due principali città slovacche, Bratislava e Košice, rispettivamente all’estremo occidentale e all’estremo orientale della Slovacchia, è da anni ritenuta la priorità infrastrutturale del paese, tra i due centri ancora non esiste un’autostrada. Paradossalmente, allora, poiché sta per venire completato il tratto autostradale tra Budapest e Tornyosnémeti, cittadina ungherese di confine molto vicina a Košice, a breve la via più veloce tra i due angoli della Slovacchia passerà dall’Ungheria.
Perché conta: La vicenda è curiosa. Non è usuale nell’Ue che per spostarsi tra i due poli più importanti di un paese i cittadini debbano uscire dal proprio Stato per poi rientrarvi. A maggior ragione in un paese relativamente piccolo: la Slovacchia è grande circa come Piemonte e Lombardia. Da questa situazione bizzarra potrebbero nascere dei vantaggi per il governo ungherese. In Slovacchia vive una cospicua minoranza magiara (circa l’8.4%), come in altri paesi confinanti con l’Ungheria. Queste minoranze oltre confine sono un lascito del Trattato del Trianon, siglato il 4 giugno 1920 a Parigi, solitamente interpretato come la “tragedia nazionale” par excellence dai nazionalisti ungheresi. Trattando il Regno di Ungheria (la “Transleitania”, la metà orientale dell’Impero austro-ungarico) come un paese sconfitto e quindi obbligato a pagare ingenti riparazioni di guerre, le potenze vincitrici ridussero il paese di due terzi, lasciando milioni di persone di nazionalità ungherese nei paesi vicini: Romania, Cecoslovacchia, Jugoslavia e, in misura minore, Austria. Dopo la fine della Guerra fredda, tutti i governi dell’Ungheria indipendente hanno agito per recuperare il legame con queste comunità di connazionali segregate dall’altra parte della frontiera. L’esecutivo di Viktor Orbán, al potere dal 2010, ha però radicalizzato questa azione, facendo del sostegno agli ungheresi residenti nei paesi confinanti uno dei pilastri della propria azione politica: è una carta nazionalista che porta voti. Dal punto di vista simbolico, allora, il fatto che i cittadini slovacchi siano costretti ad attraversare l’Ungheria per muoversi tra Bratislava e Košice ricostruisce il legame simbolico tra Budapest e la comunità magiaro-slovacca, oltre a rimarcare la maggiore efficacia delle autorità ungheresi rispetto ai colleghi slovacchi.
Per approfondire: Perché Orbán sogna la Grande Ungheria e provoca la Romania sulla Transilvania [Linkiesta]
s.b