06.05.2021 – 09.45 – L’Italia è un paese condannato dalla geografia a occuparsi di geopolitica. Penisola gettata nel cuore del Mediterraneo ma ancorata via Alpi al nucleo vitale dell’Europa, con diramazioni orientali che la legano anche a Mitteleuropa e Balcani, il nostro paese è costretto a connettere. Allo stesso modo, questa esposizione la rende vulnerabile ai sommovimenti del fu Mare Nostrum, dove oggi Roma sembra incapace di rivendicare una propria centralità, che pure le toccherebbe per geografia.
Con nuovi attori come Turchia e Russia ebbri di hybris mediterranea e le sponde meridionali in quasi perenne subbuglio, solcato da rotte commerciali sempre più globalizzate e da carrette del mare che trasportano masse sconfitte dalla globalizzazione, il Mediterraneo è sia la risorsa prima che il peggior incubo del nostro paese.
Presa nel mezzo, l’Italia vivacchia, tra spinte centrifughe che sognano la restaurazione di un ancien régime sovrano mai esistito e velleità centripete che si cullano nell’idea di poter demandare all’Europa l’onere di governarci.
Dopo aver analizzato Germania, Serbia, Slovenia e Cechia, siamo giunti all’Italia, soggetto geopolitico che ci resta, paradossalmente, spesso oscuro. Per dipanare almeno parzialmente la matassa, abbiamo incontrato Francesco Maselli, giornalista esperto di politica internazionale. Caporedattore di Linkiesta e collaboratore di varie testate, tra cui Limes, Maselli ha ideato e conduce il podcast Cavour, incentrato sull’analisi della politica estera italiana.
Quali sono le priorità geopolitiche del nostro paese?
Mi limito a tre.
La prima: rimettere in sesto la nostra economia e ricominciare a crescere. L’Italia si fonda sull’export, non abbiamo materie prime. Per tornare a contare qualcosa nel mondo, dobbiamo ritornare a essere competitivi.
Il Piano di rilancio è l’ultima occasione per sanare i gap della nostra economia e imparare a stare sui mercati. C’è da investire per aumentare la nostra produttività. A mio avviso, per farlo dobbiamo attrarre talenti dall’estero e potenziare le infrastrutture. In primis Internet: ancora molte famiglie non hanno una connessione Internet sufficientemente veloce. Siamo un paese ricco. Lo si è visto durante la pandemia: gli italiani hanno risparmiato, i conti bancari sono esplosi. Ora va capito come orientare questa ricchezza.
La seconda: intervenire sulla demografia. Siamo un paese vecchio, piagato dallo spopolamento e dall’emigazione, specialmente al Sud. Gli italiani fanno pochi figli. Dal 1993, escluse un paio di eccezioni, il rapporto nascite-decessi è sempre stato negativo. E da qualche anno lo è anche il saldo demografico: nemmeno con gli immigrati la popolazione italiana aumenta.
Dobbiamo agire per rallentare e potenzialmente invertire questa tendenza, anche perché il calo della popolazione porta alla riduzione dei consumi e alla contrazione del mercato interno. Ci sono segnali positivi in questo senso, come il Family Act, che prevede l’aiuto ai mutui per le giovani coppie. Ma è necessaria una politica di lungo termine.
La terza: riscoprire il Mediterraneo. Recuperare la capacità di influire su ciò accade sulle sponde meridionali, per evitare in primis il collasso definitivo della Libia e, molto meno discusso, quello della Tunisia. Il primo viaggio all’estero da premier Matteo Renzi lo fece proprio a Tunisi, nel 2014. Già allora si iniziava a capire che era un nostro interesse nazionale impedire che il paese sprofondasse nel caos.
Dobbiamo operare per impedire lo scoppio di crisi nel nostro vicinato. Per questo serve anche ripensare la nostra presenza nei Balcani: è una zona del mondo che noi abbiamo smesso di considerare. Altri, come Turchia e Cina, non l’hanno fatto.
Parlando di demografia, secondo le previsioni elaborate da Business Insider su dati Onu, l’Italia è l’unica delle maggiori economie del mondo a figurare nella lista dei 20 paesi che si spopoleranno di più entro il 2050.
Lo spopolamento non è una condanna irrevocabile. Accadde lo stesso alla Francia a fine ‘800. Dopo la sconfitta subita dalla Prussia (1871), ci furono cinquant’anni di stagnazione demografica, accentuata dall’ecatombe della Grande guerra. La stasi demografica fu anche indicata come una delle cause del clamoroso crollo della Francia all’inizio della Seconda guerra mondiale. Da allora Parigi ha varato un’ambiziosa politica demografica. Secondo le proiezioni, la popolazione francese dovrebbe superare quella tedesca e, nel 2100, anche quella russa.
In Italia la crescita della popolazione ha iniziato ad arrancare dopo gli anni d’oro del boom. Oggi le campagne pro-natalità sono istintivamente associate al fascismo, quindi rifiutate dall’opinione pubblica. È una retorica deleteria, da rifuggire. Gli italiani non sono consapevoli di quanto questo dibattito sia centrale. Le questioni demografiche sono percepite come noiose e, inoltre, i risultati delle politiche in questo campo maturano solo più avanti. Non garantiscono un tornaconto immediato alla politica, che quindi sceglie di ignorarle.
Anche altri Stati europei hanno vissuto l’esperienza del fascismo, pur sotto altre denominazioni, e possiamo supporre che mediamente anche le opinioni pubbliche straniere ritengano la demografia una materia noiosa. Cos’ha l’Italia di peculiare?
Da noi la continuità non è un valore politico, le élite mancano di cultura politica. Altri paesi hanno un senso di strategia più sviluppato, ragionano sul lungo termine. Quando in Francia si sono accorti che stavano diminuendo le nascite, i giornali hanno titolato “Disastro! Fate qualcosa!”. Idem in Germania, che quando si è resa conto del pericolo del calo demografico, si è mossa per scongiurarlo. Anche la scelta di accogliere migranti e rifugiati intrapresa dalla cancelliera Angela Merkel nel 2015 è rientrata in questa operazione.
Stimolare la crescita economica è necessario anche per arrestare l’emorragia demografica. I dati dicono che gli italiani vogliono fare figli (2 per donna, in media), ma non ne hanno la possibilità: la media è solo di 1,3 per donna. C’è una discrasia evidente tra ciò che desideriamo e ciò che riusciamo a ottenere.
È anche un circolo vizioso. Più la gente invecchia, meno le interessa la demografia. La popolazione anziana è meno incline al rischio: viaggia, consuma e investe meno. Sicché l’attore politico è meno propenso a intervenire, mancando lo stimolo della ricerca del consenso. Provvedimenti di lungo termine come quelli pro-natalità non garantiscono voti. Ma se non investi ti condanni a un lento e inesorabile declino. Che non è però un destino ineluttabile: ce lo stiamo costruendo con le nostre mani.
“Da noi la continuità non è un valore politico”. Lo si vede nitidamente in politica estera?
L’Italia dal 1945 ha un po’ rinunciato a tracciare una sua traiettoria precisa in politica estera. Con il fascismo ci fu un tentativo, tra farsa e tragedia, di inaugurare una politica di potenza. Naturalmente, un tipo di politica completamente al di sopra delle nostre capacità e intrisa di un’ideologia che richiamava i fasti dell’Impero romano completamente folle, deteriorata ulteriormente dal razzismo. Persa la guerra, l’ambizione di contare qualcosa nel mondo ha smesso di affascinarci. La Prima repubblica, perlomeno, aveva trovato il modo di ritagliare uno spazio per l’Italia. Penso, per esempio, alla strategia di Enrico Mattei che capì che l’Italia avrebbe potuto giocare un ruolo nel processo di decolonizzazione con l’Eni, o all’atteggiamento di apertura nei confronti del Medio Oriente della Democrazia Cristiana. Con Tangentopoli anche questi slanci sono finiti, e ci siamo chiusi in noi stessi. In parte questo è accaduto perché abbiamo pensato che la nostra politica estera fosse in fondo condotta direttamente dagli Stati Uniti. Gli americani in Italia hanno basi importantissime per l’aviazione ad Aviano e Ghedi, dove sono presenti ordigni nucleari, e per la Marina, visto che Napoli è la sede della Sesta flotta. È come se l’Italia avesse pensato:“perfetto, non devo più provvedere a me stessa, la storia è finita”. Sono sessant’anni che abbiamo rinunciato a pensarci come soggetto geopolitico.
E come soggetto unitario? Come valuti lo stato attuale del dialogo tra il Nord e il Sud del nostro paese?
La nostra classe dirigente ha dimenticato il Mediterraneo, quindi ha dimenticato il Sud. Si paragona a Francia e Germania. Interpreta l’Ue come un’aspirazione, non come un’arena dove competere con altre nazioni per la difesa dell’interesse nazionale. Quando guarda in basso, vede solo caos.
Così il Sud deperisce. Diventa sempre più vecchio, anche perché i giovani se ne vanno. E attenzione: è giusto e normale che si emigri. Il problema, in questo caso, è che non arriva nessuno a sostituire chi è partito. È un gioco a somma negativa.
Il Piano di rilancio dovrebbe creare le condizioni per attrarre nel Meridione intelligenze dal resto del paese, dell’Europa, del mondo.
Quindi ben venga il south working? Durante la pandemia molti giovani del Sud che si erano trasferiti al Nord sono tornati a casa, potendo lavorare in remoto.
Il south working ha ribadito la posizione di subalternità del Sud. Ci si ritorna potendo lavorare in remoto per le aziende del Nord, perché il clima è bello e il cibo è buono. Così il fenomeno è destinato a rimanere una fiammata estemporanea. Non può essere questo il futuro.
Il Sud rinasce se l’Italia torna mediterranea. Non possiamo continuare a ignorare il mare, come stiamo facendo. La nostra Marina resta poco attrezzata. Un esempio? La scorsa estate due fregate che erano state destinate alla nostra flotta sono state vendute all’Egitto.
Dicevi che l’Italia vede l’Ue come un’aspirazione, non come un’arena. Cosa intendi?
È la retorica del “ce lo chiede l’Europa”. Noi continuiamo a guardare gli altri, e non solo per trarre ispirazione. Non immaginiamo cosa sia meglio per noi in modo autonomo. Gli altri, invece, in Europa ci stanno per difendere i propri interessi.
Cosa dovrebbe esigere Roma da Bruxelles?
Un Recovery Plan permanente, innanzitutto. Poi una migliore gestione dei flussi migratori, ovvero una revisione del regolamento di Dublino, a sua volta un emblema della scarsa lungimiranza della nostra classe politica. La scelta del nostro governo di firmarlo fu estremamente miope. Già all’epoca, nel 1990, c’erano i prodromi dell’imminente boom demografico dell’Africa, a fronte del quale un accordo del genere, che di fatto scarica l’onere della gestione dei flussi sui paesi di primo approdo, sarebbe risultato molto penalizzante per l’Italia.
Quindi quando si è arrivati alle corde, cosa abbiamo fatto? Semplicemente, abbiamo smesso di rispettarlo, lasciando transitare i migranti sul nostro territorio. Una mossa che ha fatto innervosire i nostri partner, che poi comprensibilmente si sono dimostrati refrattari alla proposta di modifica del regolamento.
Sono discorsi sovranisti?
“Sovranismo” è una parola vuota. I partiti che reclamano questa etichetta, una volta al governo, hanno subito compromesso i rapporti con la Francia supportando i gilet gialli e cercato di allearsi con l’Ungheria di Viktor Orbán, lo Stato Ue che più osteggia la revisione del regolamento di Dublino. Questo è difendere l’interesse nazionale? No, esattamente l’opposto.
Queste forze politiche crescono nei sondaggi perché danno risposte semplici a esigenze che la società percepisce davvero, come la definizione di un’identità nazionale e la sicurezza. Ma è pura retorica. Dall’altra parte, le forze europeiste contrastano questa narrazione “sovranista” incensando l’Ue e vaticinando degli Stati Uniti d’Europa. A sua volta una posizione molto semplicistica. Il nostro dibattito pubblico rifugge da discorsi complessi.
Secondo me, difendere l’interesse nazionale non significa dire “facciamo da soli”, bensì avere una direzione chiara e, a partire da questa, negoziare con lungimiranza e consapevolezza sui dossier specifici che interessano.
È interessante che il premier Mario Draghi abbia parlato di “sovranità” nel suo primo discorso al Senato, dove ha affermato: “non c’è sovranità nella solitudine”. Uno Stato può essere indipendente sulla carta ma non realmente sovrano, perché si ritrova a dipendere da altri in svariati ambiti. Per l’Italia stare nell’Ue è fondamentale, perché permette di scaricare e condividere delle pressioni che da soli non saremmo in grado di gestire, per esempio sulla moneta.
Chi sono i nostri alleati principali?
La Francia su tutti. Abbiamo tanti dossier in comune: Libia, Sahel, Mediterraneo, dove a entrambi conviene riconsiderare la relazione con la Turchia. E oggi c’è meno diffidenza di un tempo tra Roma e Parigi.
Poi la Germania. Il Nord Italia è integrato nella catena di valore tedesca: Berlino non può permettersi che il Nord fallisca, ha bisogno che continui a esportare prodotti di alta qualità.
Infine, certamente, ci sono gli Usa. Senza di loro non si fa nulla. Dobbiamo fare in modo che Washington torni a interessarsi del Mediterraneo, dove da un paio di anni spadroneggiano Turchia e Russia.
Per noi sarebbe fondamentale migliorare i rapporti con i paesi del Maghreb: di Tunisia e Libia abbiamo detto, ma anche Marocco e Algeria.
Un’aggiunta sulla Libia. Rifiutandoci di adoperare lo strumento militare, ci siamo fatti bullizzare dal generale Khalifa Haftar. Ma, per esser visti come credibili, bisogna essere pronti a ricorrere alla potenza militare, come fanno gli altri Stati e come già abbiamo fatto noi in altri contesti, esempi Balcani e Afghanistan.
L’Egitto è un capitolo a parte. La vicenda Regeni è stato uno spartiacque: se vogliamo essere presi sul serio, non possiamo farci mettere i piedi in testa e continuare a fare affari come se nulla fosse.
In generale, la nostra classe dirigente si sogni mitteleuropea ma noi siamo mediterranei.
A Trieste, Mitteleuropa e mare non compongono una contraddizione, ma un connubio.
Certo, ma Trieste è un’eccezione. In Italia spesso la si considera un porto tedesco, proprio come la vogliono considerare gli stessi tedeschi. Per Trieste può andar bene, per il sistema paese no.
Cosa dovrebbe fare l’Italia, allora?
Interpretare Trieste come un vettore di influenza e un asset per intercettare gli scambi globali, sfruttando la sua posizione strategica all’incrocio di Balcani e Mitteleuropa. Complessivamente, l’Italia dovrebbe riconoscere l’importanza della città e del suo porto, aumentando gli investimenti e potenziando le infrastrutture. Il porto franco va inserito in un ragionamento di respiro nazionale.
Prima, però, Roma dovrebbe porsi una domanda preliminare: cosa mi servono i Balcani? Da anni sono scomparsi dal radar della nostra politica estera, la nostra attenzione è calata. Dunque, perché interessarsi a Trieste se non ti interessano i Balcani?
Qualcosa forse sta cambiando, grazie al revival che la città ha vissuto negli ultimi due anni, prima con la tentata incursione della Cina, poi con il subentro della compagnia tedesca HHLA. Trieste si è finalmente ripresa le cronache nazionali.
s.b