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martedì, 29 Aprile 2025

“Scettica e pragmatica: la Cechia sarà sempre così”. Vít Dostál, esperto di geopolitica ceca

"Non so perché, ma è certo che alla mia seconda visita a Trieste, in pochi minuti mi sentivo già a casa" (Jan Nepomuk Neruda*, 1834-1891)

19.04.2021 – 11.55 – Pochi ricordano l’epoca in cui Trieste era la finestra ceca sul mondo. Eppure, come ricostruito dal professor Borut Klabjan in “Cecoslovacchia in Adriatico”, i legami tra la città giuliana sono stati floridi. Nel 1910 vivevano a Trieste più di duemila tra cechi e moravi: un ceto medio di impiegati e dirigenti della Živnostenská banka o della Česká spořitelna, impiegati e ingegneri della Sudbahn, o tecnici della Breitfeld & Daněk. E un certo Franz Kafka lavorava come impiegato presso le Assicurazioni Generali. Oggi, però, di quella connessione rimane soltanto la memoria.
Dopo gli approfondimenti dedicati a GermaniaSerbia e Slovenia, è arrivato il turno della Cechia. Per capire meglio la politica estera ceca, abbiamo chiacchierato con Vít Dostál, direttore dell’Associazione degli Affari Internazionali di Praga (Amo, nell’acronimo ceco).

Come si è evoluta la politica estera ceca dal 1989 a oggi?  

“Dopo il 1989, il paese (all’epoca ancora Cecoslovacchia) intendeva riacquisire la piena indipendenza, scacciando definitivamente i russi. Nel 1989 era cambiato il regime ed iniziata la transizione politico-economica. Ma sul suolo cecoslovacco stazionavano ancora migliaia di soldati dell’Armata rossa. Al contempo, si agì per smantellare le istituzioni cardine del blocco orientale: Patto di Varsavia e Comecon. Tutti questi obiettivi vennero raggiunti entro il 1991.
Smaltita la secessione della Slovacchia (1993), la Cechia indipendente si mosse per entrare nella Nato (1999) e nell’Ue (2004).
Dal 2004 la Cechia è un normale membro dell’Ue. Si possono identificare alcune linee guida della politica estera nazionale – la promozione globale dei diritti umani, il sostegno ai paesi del Partenariato orientale, il supporto incondizionato a Israele, la centralità della relazione con gli Usa. Ma nessuna di queste ha l’importanza degli obiettivi perseguiti durante gli anni ‘90″.

Prima di entrare nel vivo dei contenuti, ti chiedo un parere generale. Da osservatore esterno, l’impressione è che la politica estera ceca cambi notevolmente in base al presidente di turno. Václav Havel, il fondatore del paese, sembrava molto vicino all’Occidente. Il suo successore, Václav Klaus, è stato tacciato di euroscetticismo. Miloš Zeman, il presidente attuale, è apertamente visto ostile all’Occidente e propenso all’interazione con Cina e Russia. È un’impressione corretta? 

“No. Certo, i tre presidenti hanno (o avevano) sensibilità e, soprattutto, toni diversi. Ma la politica estera rimane prerogativa del governo, non del presidente. Se guardiamo all’azione dei vari governi, che in Cechia sono quasi sempre governi di coalizione, la politica estera ceca spicca per continuità – sia negli obiettivi prefissati sia nelle modalità adottate per raggiungerli”.

Per la Cechia, il sostegno americano è un pilastro imprescindibile di questa continuità. Come sono stati vissuti a Praga i quattro turbolenti anni dell’amministrazione Trump? 

“Il rapporto tra il nostro paese e gli Usa è rimasto buono. I problemi si sono palesati perlopiù come ricadute del deterioramento del rapporto Usa-Ue. Trump vedeva nell’Ue un concorrente nell’arena internazionale, non un alleato. Il nostro governo ha allora cercato di ritagliarsi una nicchia per coltivare rapporti comunque cordiali, confezionando una politica intelligente.
Aderendo, per esempio, a “Clean Network”, l’iniziativa lanciata da Washington per la sicurezza del 5G [largamente interpretata come una mossa per estromettere Huawei dallo sviluppo delle reti 5G dei paesi alleati degli americani, NdR] e organizzando una imponente conferenza sul tema nel 2019 a Praga. Una mossa con cui il nostro paese si è è messo in buona luce agli occhi della presidenza Trump”.

Cosa è cambiato con l’arrivo di Biden? 

“Dei quattro paesi del Gruppo di Visegrád (V4), la Polonia è stata la meno entusiasta della vittoria di Biden – per dirla con un eufemismo. Nemmeno l’Ungheria ha fatto i salti di gioia. A mio avviso, per il nostro interesse nazionale, è stata invece una fortuna, perché permetterà di migliorare la relazione transatlantica. Per esempio, i dazi imposti da Trump hanno colpito duramente l’automotive, la punta di diamante dell’export ceco.
Tanto, però, dipende da cosa Praga riuscirà davvero a portare a casa. Varsavia, sebbene preferisse Trump, pare pronta a interagire anche con Biden. I polacchi sanno che la comunicazione, per esempio su temi come diritti LGBT, libertà dei media e Stato di diritto, sarà difficoltosa. Ma sono in procinto di siglare un contratto per la fornitura di armamenti con un’azienda americana: questa è una cosa che conta. E i democratici sanno fare i conti bene come li sanno fare i repubblicani. Per la Cechia resta da capire quali possano essere effettivamente i contenuti con cui sostanziare questa relazione. La mia impressione è che il nostro governo non abbia ancora definito una nuova agenda.

Non vedi la scelta di aprire un nuovo ufficio diplomatico a Gerusalemme, scelta contraria alla linea ufficiale dell’Ue, come un tentativo per farsi notare da Washington? È stato Trump a inaugurare il nuovo corso, ma su questo l’amministrazione democratica non pare intenzionata a fare marcia indietro.  

Questa iniziativa è stata dettata sicuramente anche dalla volontà di compiacere gli americani. Ma, personalmente, la vedo più come il frutto della relazione straordinariamente buona tra Cechia e Israele. I cechi hanno sempre supportato Israele, a prescindere dalle sue azioni nello scenario mediorientale. Anche nell’attuale esecutivo sono innumerevoli i sostenitori di Israele. Lo stesso presidente Zeman è uno dei politici più filoisraeliani d’Europa.

E non solo: è anche uno dei più filorussi e filocinesi. C’è spazio per Russia e Cina in Cechia? 

Esistono alcuni alcuni attori che spingono verso Mosca e Pechino: principalmente il presidente Zeman e il Partito comunista ceco, che sostiene la coalizione di governo come stampella esterna. Ma basta guardare le azioni che vengono effettivamente intraprese dall’esecutivo o leggersi i documenti programmatici per capire che, quando si parla di Russia e Cina, la Cechia non è l’Ungheria o la Slovacchia.

Cosa intendi? 

Un esempio recente. A inizio marzo, il primo ministro slovacco Igor Matovič è andato ad accogliere in pompa magna i vaccini russi all’aeroporto di Kosice, dopo averli ordinati di nascosto senza avvisare né i partner di coalizione né l’opinione pubblica. Ha dovuto dimettersi per questa trovata. Queste cose in Cechia non accadono.
La posizione della Cechia è discreta, ma non è in bilico. Il nostro paese è saldamente legato e orientato all’Occidente. I sondaggi d’opinione confermano che la maggioranza dei cechi ritiene che il paese, geopoliticamente, debba restare ancorato a ovest. Sono un’esigua minoranza, sia nella società che in parlamento, propugna l’avvicinamento alla Russia.
Lo stesso vale per la Cina. Per Praga, l’amicizia con Pechino si è rivelata una delusione cocente. Nel 2014, c’erano aspettative molto alte riguardo a quelle che i cinesi avrebbero potuto garantire. Di concreto, però, si è visto poco: l’azione della Cina è stata un fiasco. Credo che anche molte delle persone che inizialmente vedevano con favore un’interazione con Pechino adesso abbiano cambiato posizione.

Potrebbe cambiare qualcosa con l’appalto per la costruzione del nuovo reattore della centrale nucleare di Dukovany? Sul piano geopolitico, è considerata la questione più calda oggi in Cechia. 

Alcuni attori, come Zeman, stanno spingendo affinché l’appalto venga dato ai russi, come accaduto in Ungheria con l’impianto di Paks. Ma in tanti si oppongono e al nostro primo ministro, Andrej Babiš, gli accordi con russi e cinesi non piacciono tanto. Addirittura, non si è ancora recato in visita a Mosca, da quando è stato eletto (2017).

Da come parli, sembra che i cechi non abbiano dubbi: il loro posto è nell’Ue. Eppure, storicamente, nei sondaggi si registra sempre un livello di consenso molto basso verso Bruxelles, addirittura più basso che in Polonia e Ungheria, dove i governi sono attivamente impegnati a fare propaganda contro l’Ue. Come si spiega questa contraddizione? 

Dobbiamo menzionare due caratteristiche costitutive dell’identità nazionale ceca. La prima è lo scetticismo. L’euroscetticismo è solitamente visto come una cosa negativa, che potrebbe minare la stabilità dell’Ue. Può essere vero, ma in generale essere scettici è una qualità: lo scetticismo è la base del moderno metodo scientifico.
In Cechia siamo sono scettici di tutto, non solo dell’Ue. Secondo me, è un’attitudine che abbiamo derivato dalla geografia. Siamo in mezzo all’Europa centrale: da sempre abbiamo dovuto assorbire diverse influenze straniere e subire regimi diversi. Ovvero adattarci a un ambiente non creato da noi. Parafrasando Churchill, l’Europa centrale ha sempre prodotto più storia di quella che poteva consumare.
La nostra seconda caratteristica è il pragmatismo. L’abbiamo ereditato come parte della nostra identità e si rispecchia nella nostra politica estera, nel modo con cui Praga opera nell’Ue e nella politica internazionale.
Quindi sì, in Cechia si può diffidare dell’Ue e allo stesso tempo voler continuare a farne parte.

In tema di Europa centrale: il V4, fondato per integrare i quattro Stati membri in Nato e Ue, ha ancora un senso, oggi che questi obiettivi sono stati raggiunti? 

Sì, ma spesso non è compreso. Molti osservatori lo vedono come un gruppo di pressione, una sorta di gang ricatta Bruxelles con idee balzane in tema di immigrazione, per esempio…
Ma, se guardiamo a come Praga e Bratislava agiscono quando vogliono portare istanze di politica estera all’attenzione Consiglio europeo, sanno intessere relazioni diverse, uscendo dal perimetro del V4. Che serve spesso come megafono di istanze condivise dai quattro membri, soprattutto quando sono questioni su cui viene contestata la linea di Bruxelles.
Alcuni cechi, peraltro, vedono negativamente il V4. Temono che continuare a parteciparvi possa portare il paese nelle spire del nazionalismo, non vogliono correre il correndo il rischio di venire infettati dal nazionalismo di Viktor Orbán e Jarosław Kaczyński per non rischiare di rovinare il nostro legame con l’Occidente. Ma non condivido questa visione.

Perché? 

Perché, se è vero che nostri quattro governi hanno una buona affinità, è vero anche che la politica estera ceca resta definita dalle elezioni e dall’attitudine della società ceca, non dalle trame di Ungheria o Polonia.
Il V4 ha un grande vantaggio: permette di comunicare e coordinare meglio alcune attività in Europa centrale. È qualcosa che sembra scontato adesso, ma basta guardare al periodo interbellico (anni ‘20 e ‘30) per vedere come questa regione fosse divisa: tra tutti i suoi vicini, l’unico alleato della Cecoslovacchia dell’epoca era la Romania (40 km di confine comune).
Oggi siamo circondati solo da alleati, tutti membri Ue: Germania, Slovacchia, Polonia e Austria. E, Austria esclusa, siamo tutti nella Nato.
Il V4, in breve, contribuisce serve a rendere l’Europa centrale più stabile e più prevedibile. Naturalmente, è un sodalizio che ha senso esclusivamente all’interno dell’Ue. Spesso ci si scorda che l’allargamento dell’Ue nel 2004 ha anche coinciso con un’integrazione senza precedenti di questa regione. Nemmeno durante l’Impero austro-ungarico l’Europa centrale era così integrata.

Rimanendo in ambito post-asburgico, Trieste può diventare il “gateway per la Repubblica ceca”, come auspicato dal presidente dell’Autorità portuale dell’Adriatico orientale a Praga nel 2018? Negli ultimi dodici anni i legami economici si sono rafforzati. Oggi tra Trieste e l’interporto di Ostrava-Paskov, in Moravia, viaggiano sette treni al giorno. E il petrolio che viene pompato in Cechia tramite l’oleodotto Ingolstadt – Kralupy nad Vltavou, un’alternativa importante all’oleodotto russo Družba, arriva da petroliere che attraccano a Trieste.   

Al momento il predominio di Amburgo mi pare incontestabile, principalmente per le migliori connessioni infrastrutturali. Inoltre, se con tra Trieste e Moravia esisono sì dei collegamenti, la Boemia, essendo virtualmente separata dalla Baviera, resta separata anche da Trieste. La situazione potrebbe cambiare se si potenziasse seriamente il corridoio Baltico-Adriatico, ma a quanto leggo non mi sembra che l’Italia stia puntando molto su questa iniziativa.

[* Al nome di questo autore ottocentesco, relativamente poco conosciuto fuori dalla Cechia, si ispirò il sedicenne cileno Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, noto nel mondo con lo pseudonimo di Pablo Neruda].

s.b

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