13.04.2021 – 13.43 – Slavenka Drakulić, nel libro Dora e il Minotauro: la mia vita con Picasso (Edizioni BEE), riporta in vita un vecchio diario di Dora Maar, fotografa surrealista e pittrice conosciuta più facilmente come musa e amante di Picasso negli anni ’30 di Parigi. Grazie al ritrovamento di alcuni appunti scritti in croato su un quaderno nero lasciato nell’appartamento in rue de Savoie a Parigi, l’autrice di questa nuova biografia, mette in luce il legame che Dora Maar aveva con la lingua madre del padre Joseph Markovitch, oltre alla scrittura in francese, prima lingua della madre Louise-Julie Voisin, denominata Julie e mamandalla stessa Dora.
Theodora Markovitch, traslato poi in Dora Maar, nacque a Parigi nel 1907, ma molto presto subì il primo sradicamento che la portò, con la sua famiglia, a Buones Aires per il lavoro del padre. È qui, in terra latina, che Dora Maar iniziò ad avvicinarsi alla vanità e alla bellezza estrosa, imparando a ballare il tango e a parlare spagnolo.
Grazie al rapporto di stima e di affetto che Dora aveva con il padre, riuscì già in età infantile a sviluppare il suo estro artistico, incentivata dal padre, ma non dalla madre Julie, che gestiva un negozio di cappelli alla moda, ma in lotta continua col marito in un rapporto frustrato che la portava a dissuadere la figlia ancora bambina da ogni tipo di comportamento “sconveniente” secondo le sue regole cattoliche e perbeniste.
Nonostante Julie non sostenne mai la figlia nel suo talento pittorico, Dora scelse di indossare i cappelli che maman produceva, oggetto che divenne, in seguito, uno degli elementi caratteristici del suo personaggio artistico, una volta tornata a Parigi.
Ma Slavenska Draculić non chiama l’attenzione del lettore solo sulla vita già nota della famosa fotografa, bensì sul grande tema sradicante e determinante dell’appartenenza. Divisa in due lingue, simbolo per eccellenza di consapevolezza culturale, e ben presto costretta a impararne una terza, lo spagnolo, Dora Maar si ritrovò immersa in una vita che la proiettava continuamente in una dimensione di doppio esistenziale: sia tra due terre diverse per lingue e culture come Buenos Aires e Parigi, sia tra due approcci emotivi famigliari che la resero fragile e insicura. Da adulta, infatti, si ritroverà a vivere una dimensione di “donna spezzata”, costantemente scissa tra il disincanto e la vanità, la ricerca di un luogo sicuro e la sua smania di indipendenza, il bisogno di amare e essere amata contro la tendenza di non voler appartenere a nessuno.
A svelare questa duplice identità, fu la macchina fotografiche che le regalò il padre, testimone del suo talento pittorico e della sua predisposizione naturale all’osservazione del mondo con occhi nuovi. L’obiettivo della macchina fotografica si rivelò presto un’infallibile valvola di sfogo e di protezione che la rese consapevole del suo sdoppiamento: “Era come se la mia professione fosse in contrasto con la mia vita. Da una parte coltivavo un’immagine fortemente stilizzata, esotica e apparentemente borghese, dall’altra promuovevo un’ideologia di sinistra, l’urgenza di correggere e denunciare le ingiustizie (…) Fotografare era come soddisfare un bisogno perverso di vivere la vita altrui.” (pag. 58)
Una volta rientrata a Parigi e inserita nell’ambiente surrealista degli anni ‘30 che vedeva come maggiori esponenti Man Ray, Paul Eluard, Bataille e molti altri, Dora Maar non tardò a farsi conoscere come nuovo talento che la portò a scegliere una nuova identità: non più Theodora Markovitch, ma Dora Maar, un distacco dalla sua famiglia che si rivelò determinante. Ad avere una voce in capitolo importante nella sua evoluzione, fu la presenza dell’amico Man Ray, con il quale si ritrovava al cafè La Rotonde di Montparnasse per parlare di fotografia e arte.
Dora non aveva un aspetto piacente, secondo la madre Julie, poiché non possedeva la grazia francese, ma la robustezza croata. Questi aspetti divennero presto il suo marchio di fabbrica, la sua bellezza balcanica fu oggetto di ritratti da parte di Man Ray, che ne esaltò la linearità dei suoi lineamenti, seppur importanti nelle forme, ma severi e austeri. L’esoticità della sua bellezza fuori dai canoni parigini, attrasse presto molti uomini dell’epoca, tra cui lo scrittore surrealista Bataille, di cui divenne l’amante. La relazione tra i due durò il tempo necessario per convertire Dora ad un amore più grande, reale e infinitamente tragico che la portò a passare da artista e donna indipendente, bohemienne e superba, a vittima implacabile di quella che si rivelò essere non una storia d’amore, ma una dipendenza tradotta in malattia: Picasso.
Se i surrealisti esistevano come gruppo unito da un’ideologia comune, Picasso esisteva per il semplice fatto di essere Picasso. Non apparteneva a nessun gruppo ufficialmente, ma si mescolava con tutti, prediligendo la compagnia dei surrealisti, più che altro perché erano gli altri a cercarlo e a ritrovarsi nel suo atelier in preda a continui atti di venerazione, di richieste di opinioni sui lavori artistici, di dibattiti politici che dovevano essere a favore dell’idea di Picasso. Nessuno osava contraddirlo; tutti sceglievano di assecondarlo: “Lo consideravano un fenomeno sovrannaturale, una sorta di divinità. E la divinità si venera.” (pag. 47).
Tranne Dora Maar.
Fu proprio per la sua resistenza, che Picasso si interessò in modo insistente a lei: le piaceva la sua severità, l’alterigia del suo portamento, la modernità della sua arte, la fotografia, che Picasso considerava arte di secondo ordine, poiché non la capiva e perché, in qualche modo, sentiva che il talento di Dora avrebbe potuto oscurarlo, una volta diventata la sua amante.
Slavenska Drakulić è riuscita, con quest’opera, non solo a fare chiarezza sul personaggio fin troppo chiacchierato di Dora Maar, dandole una voce reale, resuscitata dalle sue stesse parole del diario in croato, ma a chiamare la nostra attenzione sulla società parigina dell’epoca, dove artiste e artisti si pensa fossero liberi di esprimersi alla stessa maniera, quando invece, il problema delle donne artiste era che per essere riconosciute dal gruppo a cui appartenevano (con voce in capitolo all’interno della società) dovevano diventare delle muse e, di conseguenza, appartenere ad un artista uomo: “Essere moderne per noi donne voleva dire comportarsi in maniera ancora più radicale degli uomini (…) Il paradosso del surrealismo e degli anni Trenta era che all’epoca, forse per la prima volta, le donne potevano occuparsi di arte senza essere ritenute prostitute. Ciò tuttavia non voleva dire che la critica o il pubblico le avrebbe prese seriamente.” (pag.136-137)
Per Dora non fu così, fino all’arrivo di Picasso.
In men che non si dica, si ritrovò a inscatolare la sua macchina fotografica a privilegio di un pennello per dipingere tele che non risultavano essere altro se non il surrogato femminile dell’arte di Picasso. Lui insisteva, lei accettava. Per i primi tempi della relazione, riuscì a conservare per un po’ un granello di autorevolezza e dignità, fino all’arrivo della Guerra Civile di Spagna. Per quanto non se ne accorgesse, Dora restava fedele alla memoria della sua arte, ma prima ancora dei suoi valori ideali. Una fotografia che ritraeva la tragedia della guerra con vittime di ogni genere, colpì la sua attenzione al punto che costrinse Picasso a guardare quell’immagine e a prenderne atto. Nonostante il distacco e l’indifferenza che Picasso dimostrava di fronte alla morte, e quanto questo sconvolgesse Dora, lei non riuscì ad abbandonarlo. Lo amava e lo ripudiava, detestava la sua capacità di estraniarsi da qualunque momento storico, senza prendere parte, schierandosi con un’idea, neanche quando, più tardi durante la Seconda Guerra Mondiale, il suo grande amico Max Jacop fu imprigionato in un campo di concentramento e ucciso. Picasso non fece niente. La morte non lo riguardava, lo disgustava, lo interrompeva dal suo flusso di immortalità che si era guadagnato grazie alla sua arte, al suo genio e al suo ruolo in quanto artista, perché alla fine la sua unica fede si traduceva nella sua pittura, ogni misura si calcolava secondo questa legge, dove “creare era per lui l’unico modo per sopravvivere.”(pag.142)
Dora Maar fu testimone della sua brutalità, ma ottenne una piccola rivincita nel momento in cui Picasso decise di dipingere Guernica, partendo dalla fotografia che gli aveva mostrato Dora. Lei fotografò ogni passaggio della creazione di Guernica, lavorarono insieme e per la prima volta, in modo assoluto, dove arte e sentimento si fusero in movimenti lenti, fatti di giorni silenziosi, lontani dal mondo esterno che Picasso teneva fuori dal suo atelier quando lavorava, lei sentì di appartenere ad un posto, il suo luogo al sicuro dove riporre ogni arma, senza sapere che quello stesso posto si sarebbe rivelato una camera da tortura di lì a poco.
Tutto cambiò per lei, ma mai per lui. Lei si innamorò, lui la utilizzò come strumento per esplorare nuovi lidi della sua pittura. Ma quando Dora cambiò il suo ruolo di amante e donna libera al ruolo di vittima e donna sottomessa, anche i molti ritratti che Picasso le fece, mutarono.
Dora si trasformò da donna attraente dalle mille sfaccettature, a donna piangente, lacrimante, urlante, supplichevole. Da bellezza seducente, a martire usurata; da artista di successo, a delirio di pazzia. Dall’amore per Picasso all’ospedale psichiatrico sotto le cure di Lacan, fino agli innumerevoli elettroshock. Con questo diario, Dora Maar, secondo le direttive del dottor Lacan, ha cercato di ricordare e fissare la sua memoria con Picasso; con metodica precisione, ha esplorato i reflussi più duri, la parte più corrosa della sua anima, per ritrovare una risposta che le permettesse di sollevarsi dal duro compito di essere stata un’artista e una donna e aver perso tutto per l’amore di uomo: “Sento il bisogno di confrontarmi con le mie perdite” (pag.166). Peccato che si accorse presto che nel suo caso resilienza non c’era, perché l’essere che lei amava non era un uomo, ma Picasso, il mangiatore insaziabile delle vite altrui, il consumatore accanito della bellezza femminile, il Minotauro impazzito che sporca la purezza di ogni cosa lo raggiunga, e se non lo raggiunge, lui se la va a prendere.
Perché dopo Dio, c’è solo Picasso.
Per quanto possa risultare folle, non fu tutta colpa del pittore spagnolo, e Dora Maar lo riconobbe spesso nella sua confessione. Fu lei che non seppe redimersi quando si accorse che lui la stava inghiottendo. A differenza delle altre donne e mogli di Picasso, a Dora era stata data una dimensione unica, dettata dalla sua ambiguità e dalla sua superbia, ma anche dalla sua modernità come donna che non ha mai cercato dei figli come collante di eternità con Picasso, ma ha lottato con i suoi gesti, fino a non reggere più l’atroce battaglia dove solo Picasso poteva vincere. Non si era spogliato e diventato uomo, era rimasto Picasso. Dora, invece, era diventata donna, vulnerabile e friabile, ammalata per sempre e per sempre costretta a chiedersi: “E’ possibile guarire da Picasso?” (pag.197)
Dora Maar si condannò a vita con queste consapevolezze, assolvendo Picasso dai suoi peccati e accumulandoli ai suoi, fino al punto di allontanarsi da ogni relazione sociale per rinchiudersi nella religione, la stessa che aveva criticato a sua madre, sostenendo che “il problema era che non potevo accettare nessuna religione, poiché ciò avrebbe voluto dire rinunciare a me stessa”. (pag.171) Una volta rinunciato veramente a se stessa donandosi a Picasso, Dora non si bastò più. Neanche gli elettroshock furono la cosa più sconvolgente che riuscì a provare, ma solo una delle conseguenze della sua vita con Picasso.
La sua ragione di esistere e di voler essere amata da lui era racchiusa dentro ad una divinità irraggiungibile, ma reale. In assenza di questa, cercò Picasso in Dio, al punto tale da dedicare ad ognuna delle sue divinità, un rituale preciso: ogni mattina si recava a messa e ogni sera, sul calar del sole, sollevava due calici di Cabernet de la Citadelle e brindava a Picasso “genio della pittura e uomo insopportabile che ha segnato la mia vita”. Prima di rientrare a casa, gettava a terra il vino del bicchiere come segno di sacrificio all’anima di Picasso, pronta per ritornare ai suoi gesti di routine, nella clausura autoimposta che la isolò da ogni contatto umano, quasi volesse lei stessa condannarsi alla solitudine per non aver saputo sopravvivere a Picasso, per aver annientato e umiliato il suo talento e per aver dimenticato che per appartenere a qualcuno, prima doveva trovare la misura di accogliere se stessa. Ma fu comunque troppo tardi e, ogni sera, a distanza di trent’anni dalla loro vita insieme, si continuò a chiedere: “Chissà se gli vengo mai in mente?”.
f.s