07.04.2021 – 18.22 – Un banale farmaco degli anni Settanta, la niclosamide, usata per le infezioni intestinali, è in grado di bloccare i danni provocati dalla proteina Spike di Sars-CoV-2 alle cellule. Lo ha scoperto, dopo uno screening su oltre tremila farmaci, un gruppo di ricercatori anglo-italiani, afferenti rispettivamente al King’s College London, all’Università degli studi di Trieste e al Centro di Ingegneria Genetica e Biotecnologie (ICGEB) di Trieste.
Nel continente indiano, dove il Coronavirus dilaga incontrollato, è stata avviata a questo proposito una sperimentazione di massa per confermare o meno se l’utilizzo del niclosamide sia in grado effettivamente di aiutare i pazienti, oltre a evitare danni a lungo termine.
La proteina Spike del Covid-19 stimola la fusione tra cellule infettate e cellule vicine generando cellule anormali, molto grandi e con molti nuclei. Questo processo si verifica anche successivamente all’infezione, dopo 30-40 giorni dal ricovero in ospedale. Erano stati sempre i ricercatori triestini a rilevarlo lo scorso novembre 2020, dopo una serie di studi sui polmoni dei pazienti deceduti che avevano esibito quei coaguli in grado di bloccare la circolazione del sangue e straziare i tessuti polmonari. Le capacità del niclosamide in questo contesto di fermare questa fusione tra cellule sane e malate potrebbe essere un buon ausilio nella lotta anti Covid-19.
“Siamo molto soddisfatti dai nostri risultati – ha riassunto Mauro Giacca – per almeno due motivi. Primo, perché abbiamo scoperto un meccanismo completamente nuovo, attivato dalla proteina Spike e importante per il virus. Le nostre ricerche mostrano come Spike attivi una famiglia di proteine della cellula, chiamate TMEM16, che sono indispensabili per la fusione cellulare. Secondo, perché questo meccanismo è anche alla base dell’attivazione delle piastrine, e potrebbe quindi anche spiegare perché il 70% dei pazienti con Covid-19 grave sviluppa una trombosi. E ora sappiamo che c’è almeno un farmaco, la Niclosamide, in grado di bloccare questo meccanismo.”
“Penso che questa ricerca sia importante” – continua Mauro Giacca, professore dell’Università di Trieste e docente di Cardiovascular Sciences al King’s College di Londra – anche perché sposta l’attenzione dal tentativo di bloccare la moltiplicazione del virus, come finora hanno cercato di fare con alcuni farmaci, con scarso successo, a quello di inibire il danno causato all’organismo dalle cellule infettate. Sono sempre più convinto che Covid-19 sia una malattia causata non dalla semplice distruzione delle cellule infettate dal virus, ma dalla persistenza di queste cellule nell’organismo per periodi lunghi di tempo. Il meccanismo che abbiamo scoperto potrebbe quindi anche essere coinvolto nello sviluppo del cosiddetto Covid lungo, ovvero spiegare la difficoltà che molti pazienti hanno a ricuperare dopo la malattia”.
La ricerca, pubblicata oggi sulla rivista Nature, è stata condotta nei laboratori diretti dal professor Giacca alla School of Cardiovascular Medicine & Sciences del King’s College London, l’International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology di Trieste e l’Università di Trieste, con la collaborazione dell’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università di Trieste grazie al supporto dei professori dell’Università di Trieste Rossana Bussani, docente di anatomia patologica e Chiara Collesi, docente di biologia molecolare, e con la collaborazione di altri gruppi di ricerca del King’s College London, Imperial College London e dell’Istituto di Biofisica del CNR di Trento.
[z.s.]