22.03.2021 – 18.00 – Trieste ospita una delle comunità serbe più numerose d’Italia, radicata in città da circa tre secoli, come testimonia plasticamente il Tempio serbo-ortodosso della Santissima Trinità e di San Spiridione. È anche una delle poche sedi italiane di un consolato onorario serbo. Per molti, tuttavia, l’immagine della Serbia come attore geopolitico è rimasta cristallizzata ai tormentati anni ‘90, che videro Belgrado iniziare e perdere due guerre civili per impedire le secessioni di Slovenia (1991), Croazia (1991-1995), Bosnia Erzegovina (1992-1995) e Kosovo (1998-1991), che nell’insieme portarono al collasso la Federazione jugoslava ideata da Tito nel 1943. Dopo l’approfondimento dello scorso mese dedicato alla Germania, abbiamo quindi intervistato Vuk Vuksanović, esperto di geopolitica serba, per sapere quanto la Serbia del 2021 abbia in comune con la Serbia del 1991, e con quelle precedenti. Vuksanović è dottorando alla London School of Economics e ricercatore presso il Belgrade Center for Security Policy.
Quali sono oggi le linee guida della politica estera della Serbia?
Come tutte le nazioni di piccola taglia, la Serbia persegue una politica estera reattiva, non proattiva. Si muove in un contesto dove le regole sono decise da altri. Fatto questo caveat, la priorità è certamente sistemare i danni degli anni ‘90: il paese non è ancora riuscito a emanciparsi dalle conseguenze dell’era Milošević. Un passaggio necessario per poi trovare una propria collocazione nell’architettura strategica Ue e mondiale.
Quali sono queste conseguenze?
Sicuramente il rapporto con il Kosovo. Il non riconoscimento resta la questione centrale della politica estera serba, nonché l’ostacolo principale nel processo di avvicinamento all’Ue. Poi vengono tutte le dispute che contrappongono la Serbia a tutti i vicini post-jugoslavi: Croazia, Bosnia Erzegovina, Montenegro e Macedonia del Nord. Il paese deve, infine, integrarsi pienamente nel mercato globale. Necessità che rende l’Ue, con tutti i suoi limiti, il partner migliore con cui dialogare.
Al momento, però, il processo di integrazione dei Balcani occidentali nell’Ue sembra congelato. Quanto pesa questo fattore?
Il fatto che attualmente l’entrata in Ue sia vista come uno scenario irrealistico diminuisce l’influenza che Bruxelles può esercitare su tutti i sei paesi dei Balcani occidentali. Finché l’ingresso dell’Ue resta una chimera, perché accasarsi?, si chiedono le élite serbe. Molto più redditizio continuare a diversificare il proprio carnet di amicizie.
Sì, la Serbia si è sempre destreggiata abilmente tra partner diversi. Fin dal primo Ottocento, quando cercava di ottenere l’indipendenza barcamenandosi tra Impero ottomano e potenze occidentali, o come nella Guerra fredda, con la fondazione del Movimento dei non allineati. Oggi questa tattica sta venendo riprodotta anche all’interno dell’Ue.
Come?
La dinamica è questa. Nessun governo serbo può esistere senza il convinto sostegno di almeno un partner occidentale. Fino a tempi recenti, il presidente Aleksandar Vučić aveva potuto contare su quello della Germania. Ma alcune mosse hanno alienato al presidente serbo il sostegno di Angela Merkel. Soprattutto la proposta di risolvere la disputa con il Kosovo tramite uno scambio di territori, opzione osteggiata da Berlino, ma sostenuta dall’amministrazione Trump, su cui Vučić aveva puntato molto. Anche quanto (non) successo alle ultime elezioni, dove il partito del presidente ha vinto con numeri bulgari grazie al boicottaggio di quasi tutte le opposizioni, ha raffreddato l’asse Berlino-Belgrado. Quindi, con la sconfitta di Trump, a Vučić non restavano che due opzioni tra i pesi massimi dell’Occidente: il Regno Unito, che però non hai mai avuto molto interesse per i Balcani e deve ancora ritrovarsi dopo aver finalizzato la Brexit, e la Francia. Così è diventato Parigi il miglior amico di Belgrado nell’Ue.
Può nascerne qualcosa di concreto?
Dubito. I Balcani occidentali hanno bisogno di un approccio 24/7, non di qualche fiammata di attenzione una tantum. E Parigi non ha né la capacità né l’interesse per garantire questo grado di impegno.
Ci sono altri partner Ue con cui Belgrado si trova in particolare sintonia?
Certamente, l’Ungheria. Innanzitutto, Budapest apprezza come Belgrado tratta la minoranza ungherese in Vojvodina. I due paesi, inoltre, si ritrovano su molti dossier comuni, come la costruzione dell’autostrada Belgrado-Budapest e l’ambizione a importare ancora più energia dalla Russia. E il rapporto personale tra Vučić e il premier ungherese Viktor Orbán è molto buono.
Perché?
Sono entrambi fautori di una sorta di “democrazia illiberale”, o comunque di un modello politico che si discosti sensibilmente dallo standard Ue. Va notato che Vučić è però molto più duttile in termini ideologici. A differenza del collega magiaro, non si è fatto alfiere della difesa della famiglia tradizionale e della lotta contro i diritti Lgbt. Ha addirittura nominato una donna lesbica, Ana Brnabić, come sua premier. Una mossa per ammiccare a Bruxelles e presentarsi come europeista convinto, naturalmente.
Ma Vučić e i suoi sono davvero interessati a promuovere l’adesione della Serbia all’Ue?
Sul piano ideologico, l’attuale classe dirigente è sicuramente poco sensibile ai valori Ue, soprattutto se confrontata con alcuni predecessori. Si compone, perlopiù, di nazionalisti della prima ora che si sono in seguito riciclati come europeisti e sono stati accettati da Bruxelles come tali. Essendo una dirigenza estremamente pragmatica, adotta nell’interazione con Bruxelles un approccio transazionale. I decisori politici serbi sanno che il loro paese è già ora troppo integrato con l’Ue (scambi economici, legami sociali, rimesse degli emigrati) per poter anche solo pensare di rinunciare a questa interazione. Al contempo, però, rallentare il processo di allargamento a loro conviene: solo così possono rimanere al potere.
Esistono delle divisioni nette nelle spettro politico serbo, in ambito di politica estera?
La questione è articolata. Non riconducibile al semplice divario Est-Ovest, come viene pigramente raccontato. Ci sono serbi apertamente filoccidentali, che però criticano la politica estera di Ue e Usa, così come ci sono serbi che nulla sanno del funzionamento della società russa, ma ammirano la Russia solo perché alternativa all’Occidente. In linea di massima, tuttavia, i partiti maggiori non mostrano grandi differenze tra loro, quando si parla di politica estera. Tutti cercano di evitare scelte impopolari, come riconoscere il Kosovo, aderire alla Nato o imporre sanzioni alla Russia. Tutti provano ad attirare comunque i voti sia dei segmenti filo occidentali, sia di coloro che preferirebbero una maggior interazione con Cina e Russia. Tutti tentano sempre di avere il supporto del maggior numeri di attori esterni.
Tra questi, da alcuni anni si scrive molto della Cina. L’influenza di Pechino in Serbia è davvero aumentata?
È più alta che mai. La Cina ha rimpiazzato la Russia come secondo partner della Serbia, in ogni aspetto, da quello diplomatico a quello economico. Lo si evince da svariati esempi. La Cina è diventata uno dei donatori principali della Serbia. Si sono rafforzati i legami politici e gli scambi in ambito tecnologico, come confermato dalle partnership siglate con Huawei. È incrementata, inoltre, la cooperazione in ambito militare.
Quindi il legame tra Belgrado e Mosca è più flebile di quanto si racconti di solito?
In Occidente continua a persistere il mito di una continuità bisecolare nel legame tra Serbia e Russia veicolata dalla comune fede ortodossa, ma questa non è mai stata la realtà. Come tutti i rapporti diplomatici, l’asse Mosca-Belgrado è stato influenzato nei decenni dalle geostrategie dei due paesi e dalle classi dirigenti che in quel dato momento governavano i due Stati. L’influenza del Cremlino è oggi più debole rispetto anche solo a due anni fa. Certo, il non riconoscimento del Kosovo da parte della Russia resta un pilastro inscalfibile di questo rapporto. E, in ottica serba, finché la prospettiva di entrare nell’Ue non diviene realistica, non esiste nessun motivo per rompere con Mosca. Dalla triangolazione con partner non occidentali possono sempre derivare dei vantaggi: lo si è visto nel caso dei vaccini.
La Russia intrattiene un legame molto solido anche con la Repubblica serba, l’entità amministrativa della Bosnia Erzegovina dove abita la maggioranza dei serbi di Bosnia. Il loro leader, Milorad Dodik, torna spesso a minacciare la secessione. Che ne pensa Belgrado di questo scenario?
Credo che se si facessero dei sondaggi presso le popolazioni serba e albanese di tutta la regione, emergerebbe che sia la maggioranza dei serbi e che quella degli albanesi vorrebbe vivere in un unico stato monoetnico. Detto ciò, nulla di simile accadrà mai. E la Repubblica serba è lì a dimostrarlo. A Belgrado lo status quo imposto a Dayton dopo la fine della guerra 1992-1995 va più che bene. Garantisce un discreto livello di autonomia ai serbi di Bosnia e le permette di avere voce in capitolo nelle vicende del paese vicino. Le possibilità che la Repubblica serba seceda per unirsi con la Serbia o proclami l’indipendenza restano due scenari inverosimili. Questa situazione, tuttavia crea costanti frizioni con Sarajevo, dove i tre gruppi etnici principali (serbi, croati e bosgnacchi-musulmani) non hanno alcuna idea comune del futuro.
Parlando di gruppi etnici, ma in Serbia, che ruolo giocano le minoranze presenti nel paese, sul piano geopolitico?
Partecipano alla stessa tattica che abbiamo esplorato finora: continuare a tenere ampio e diversificato lo spettro degli attori con cui si interagisce, finché ciò è possibile senza perdere il sostegno di quelli più determinanti. Della Vojvodina e dell’Ungheria già abbiamo detto. Il caso più significativo è però quello della comunità bosgnacco-musulmana del Sangiaccato. La sua presenza aiuta a tenere rapporti cordiali coi paesi musulmani più influenti. In primis Turchia, come si è visto nella trionfale visita comune che Vučić e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan hanno effettuato nella regione nel 2017. Ma vanno menzionati anche Emirati arabi uniti e Azerbaigian, che, per esempio, intervengono spesso per restaurare il patrimonio storico-culturale legato all’Islam e hanno prestato assistenza alla popolazione del Sangiaccato durante la pandemia.
Ultima questione: l’accesso al mare, uno degli handicap della Serbia. Può essere Trieste, in virtù del suo legame storico con il paese, il “porto della Serbia”?
Solo per gli appassionati di storia jugoslava, credo. Nel dibattito pubblico interno, il nome di Trieste non emerge quasi mai.
Quali sono le alternative più credibili, allora?
Per connettersi alle rotte commerciali marittime, la Serbia ha tre opzioni, ciascuna con le sue criticità: Antivari/Bar, in Montenegro, che è però molto carente sul piano infrastrutturale, e inoltre i rapporti serbo-montenegrini non sono più idilliaci come un tempo; Salonicco, in Grecia, che potrebbe però essere sfruttato appieno soltanto migliorando i rapporti con la Macedonia del Nord, dove dovrebbero necessariamente passare via terra le merci sbarcate a Salonicco; Fiume/Rijeka, in Croazia, soluzione ancora più complessa delle due precedenti, viste le relazioni ancora complicate tra Belgrado e Zagabria.
s.b