18.03.2021 – 14.52 – Se ad essere costantemente evidenziati dai mezzi di informazione sono i numeri di ricoveri per CoVid-19, sempre in ambito sanitario e nel quasi totale silenzio delle istituzioni, i posti letto ospedalieri sono occupati anche da pazienti vittima di una nuova, preoccupante tendenza: i giovani che tentano il suicidio o che mettono in pratica atti di autolesionismo per cui rischiano la vita. Una dilagante “pandemia emotiva” che sta interessando ospedali e strutture di tutto il paese e che terrorizza psicologici e psichiatri, consapevoli dell’implicito allarme che questi dati portano con loro.
Il primo allarme fu diramato da Stefano Vicari, responsabile dell’ala di neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma, già all’inizio della seconda ondata: egli sottolineò l’incremento dei posti letto occupati da ragazzi entrati in reparto per tentato suicidio, il 100% di fine 2020, contro una media standard del 70%.
In un clima di estremo isolamento, fisico e psicologico, i ragazzi si trovano spesso in una situazione emotiva complessa da gestire, a causa della mancanza di socialità e la permanenza forzata in ambienti famigliari spesso complessi e dannosi, la cui unica via di uscita sembra essere la morte. Una morte a cui, tra l’altro, diversi ragazzi sono stati costretti a conoscere sempre di più, segnati dalla scomparsa degli affetti più cari: ciò che prima era oscuro e lontano, adesso sembra essere diventato sempre più vicino e presente, in una costante ridondanza di numeri che sono, ormai, la normalità.
Tutto parte da una incrementata tendenza depressiva e ansiosa, già diffusa nei giovani ed amplificata enormemente dalla situazione dell’ultimo anno: perché la mancanza di routine (niente più uscite, niente più scuola, sport o attività), la lontananza dalle figure fondamentali e dai luoghi dello sviluppo, portano al costante affaticamento, ad una situazione in cui è difficile quasi “fisicamente” mantenere tutto in ordine, al suo posto. Le energie si perdono sempre di più, i ragazzi tendono ad chiudersi in loro stessi o in esporsi in modo aggressivo col prossimo, in un’alienazione inquietante. Non bastasse ciò, in questo pericoloso mix, salta sovente all’occhio le difficoltà derivanti da convivenze conflittuali in famiglia, abitazioni con spazio troppo ridotto, situazioni economiche non floride, ma, soprattutto, il riflesso di un ulteriore disagio psicologico proveniente da genitori e parenti.
Un altro considerevole lato del problema, inoltre, è rappresentato dall’insorgere (o amplificarsi) di disturbi alimentari e abuso di sostanze stupefacenti: un rapporto complesso e delicato con qualsiasi cosa, da ciò che è più “normale” come il cibo, a ciò che è estremamente pericoloso, come alcol e droghe suis generis, a cui i giovani si appoggiano nella speranza di riuscire a colmare un vuoto psicologico, per riuscire a smettere di pensare almeno momentaneamente a ciò che è stato tolto loro. Un altalenarsi continuo di attaccamento a corpi esterni: un comportamento che all’inizio può sembrare innocuo, come una dieta un po’ restrittiva da portare avanti perché “stando a casa è più semplice”, oppure un paio di bicchieri di troppo bevuti al bar perché “tanto non si può uscire quasi mai, tanto vale esagerare”, ma che porta a una drammatica lesione emotiva e fisica, che segna permanentemente l’individuo per il resto della sua vita.
Un panorama sconsolante di problemi che si radicheranno sempre di più e che, alla lunga, anche a pandemia sedata, rappresenteranno un dramma forse ancora più complesso da riuscire a gestire del CoVid.19 stesso. Una società che si appresta ad essere segnata e disgregata tanto dalla malattia fisica quanto quella mentale, in un desolante panorama di cui tutti si stanno rendendo conto di ciò a cui stiamo andando incontro, ma in cui pochi agiscono realmente. A distanza di un anno, quindi, è auspicabile la presa di coscienza di chi di dovere, per tamponare il più possibile i rischi di una collettività in cui le persone non sapranno più come vivere il benessere.
i.m