15.03.2021 – 13.16 – Democrazia in Balcani occidentali ed Europa Centrale: È stato pubblicato l’ultimo report di Freedom House (FH) sullo stato della democrazia nei paesi post-comunisti. Perché conta: L’indice assegna un punteggio da 0 a 100, in base alla valutazione qualitativa di alcuni parametri come libertà di stampa, protezione delle minoranze e trasparenza delle amministrazioni. Il quadro complessivo fotografa un trend bidirezionale visibile da alcuni anni: nei paesi più democratici la democrazia si sta consolidando, in quelli più illiberali va peggiorando ulteriormente. Ovvero, con solo due eccezioni, aumenta la forbice tra paesi che rispettano lo Stato di diritto e quelli che lo infrangono spesso e volentieri. Tra i dodici paesi che formano le due regioni in esame – Balcani occidentali ed Europa centrale – solo cinque sono considerati paesi “liberi”. La capofila è la Slovenia, che nonostante l’insediamento lo scorso anno di un governo ritenuto tendenzialmente illiberale, guadagna un punto rispetto al 2019 e si attesta a 95. Molto in alto anche Cechia (91, come nel report precedente), Slovacchia (90, due punti in più) e Croazia (85, come nel 2019). La Polonia resta classificata come paese “libero” (quelli sopra la soglia di 70), ma perde altri due punti, adagiandosi a 82. Tutti gli altri paesi delle due regioni europee post-comuniste figurano nell’elenco degli Stati solo “parzialmente liberi”: Ungheria (69, calo di un punto), Albania (66, anche lei meno uno), Serbia (64, due in meno), Kosovo (54, una flessione di due punti) e Bosnia Erzegovina (53, come nel 2019). Le due eccezioni sono: Macedonia del Nord, che anche grazie alla buona gestione della tornata elettorale dello scorso anno fa un balzo notevole (+3 rispetto al 2019), e Montenegro (+1), dove lo scorso dicembre si è insediato il primo governo dal 1991 senza esponenti del Partito dei democratici socialisti di Milo Đukanović. Entrambi gli Stati rimangono comunque distanti da standard accettabili di performance democratica – la Macedonia del Nord è a 66, il Montenegro a 63. Per l’Ue è il proverbiale bilancio in chiaroscuro: l’appartenenza al blocco e l’aspirazione a entrarci rimangono due vettori di democratizzazione, ma si dimostrano insufficienti a scongiurare derive autocratiche. Bruxelles può legittimamente vedere il bicchiere mezzo pieno, ma fino a tempi recenti le aspettative erano molto più elevate.
Per approfondire: Ondata di democratizzazione. La Slovacchia è diventato lo Stato meno euroscettico del gruppo di Visegrad (Linkiesta)
Macedonia del Nord – NATO: Il premier macedone Zoran Zaev ha dichiarato che sono stati gli obblighi previsti dall’appartenenza all’Alleanza Atlantica a impedirgli di acquistare vaccini da Cina e Russia, come ha potuto invece fare la Serbia, lo Stato della regione attualmente più avanti nella vaccinazione della popolazione. Le autorità Nato hanno preferito non commentare.
Perché conta: La Macedonia del Nord è entrata ufficialmente nell’alleanza militare occidentale da poco più di un anno e già iniziano a manifestarsi le faglie che frammentano la popolazione macedone. Le svergognate inefficienze dell’Ue e degli Stati membri sull’acquisto e la somministrazione dei vaccini contro il coronavirus, disfunzioni e ritardi che hanno umiliato il blocco comunitario nel confronto con alleati (Usa e Regno Unito) e rivali (Cina e Russia), riverberano nei Balcani, rimasti finora ai margini della strategia di vaccinazione Ue. Avendo puntato sui farmaci di fabbricazione russa e cinese, Belgrado sta effettivamente surclassando gli altri cinque paesi della regione. La denuncia di Zaev, a prescindere che le accuse rivolte alla Nato siano fondate o meno, tradisce questo malessere. Chi si è fidato di Bruxelles, nei Balcani occidentali, è restato al palo. Una frustrazione che si tramuta in vento in poppa per le forze filorusse e filocinesi presenti in quasi tutta l’area, Macedonia del Nord inclusa. Il governo socialdemocratico, che solo a inizio mese ha nuovamente incassato la fiducia del parlamento in un modo proceduralmente corretto ma politicamente controverso, è bersagliato dagli strali delle fazioni ostili alla svolta atlantista impressa da Zaev dal 2017 ad oggi. L’adesione alla Nato e il varo delle riforme prevista dal processo di integrazione europea erano state raccontate come traguardi decisivi, che avrebbero permesso un concreto miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini macedoni. In parte è accaduto, ma fallimenti plateali come quello sui vaccini producono un danno di immagine difficile da cancellare. Se l’avvicinamento all’Ue, per cui Skopje dovrebbe sobbarcarsi compromessi gravosi come la soddisfazione dei capricci della Bulgaria, non produce benefici reali, ma si rivela anzi una pastoia, c’è da aspettarsi che una quota crescente della popolazione inizierà a osteggiarlo con maggiore vigore. Le parole di Zaev suonano come un campanello d’allarme.
Per approfondire: Una Macedonia del Nord più occidentale, più albanese e più stabile. Per ora (Limes)
Polonia: La Corte suprema ha stabilito che il gruppo Onr (acronimo del nome polacco “Campo nazionale radicale”), una delle formazioni di estrema destra più radicali del paese, può legittimamente essere definito “fascista”, in quanto si riallaccia esplicitamente – nel nome, negli slogan e nell’ideologia – a quella Onr che fu creata nel 1934 ispirandosi al modello del Partito nazionale fascista fondato quindici anni prima da Benito Mussolini in Italia.
Perché conta: La notizia è un piccolo segnale in controtendenza, soprattutto perché arriva poche settimane dopo un’altra sentenza intrecciata alla storiografia ma di tutt’altro tenore, trattata in una precedente edizione di questa rubrica. Evidenzia come – a differenza dell’Ungheria – la democrazia in Polonia, dove dal 2015 è al potere una coalizione di ultradestra, non sia ancora una causa persa. Il potere giudiziario polacco non è ancora interamente asservito al potere esecutivo, che da anni cerca di aggiogarlo, pensionando anzitempo i giudici disallineati e limitando le prerogative dei tribunali. Come spesso accade nei paesi oltrecortina governate da forze classificabili come fortemente nazionaliste, tra le fila delle opposizioni figurano non di rado fazioni ancora più radicali. È il caso dell’Onr, asceso alle cronache negli ultimi anni per essere uno dei tre gruppi che ogni 11 novembre organizzano la famosa “Marcia per l’indipendenza” che ogni anno trasforma il centro di Varsavia nel festival dello sciovinismo polacco, richiamando anche simpatizzanti di altri partiti neofascisti europei. Durante lo scorso anno, alcuni manifestanti avevano aggredito la polizia e incendiato un appartamento dal cui balcone sventolava una bandiera LGBT, fatti che avevano spinto le opposizioni liberali e progressiste a invocare la messa al bando dell’organizzazione. Pur condannando come da copione le violenze, il governo le aveva invece attribuite a non meglio precisati “provocatori”. La sentenza, tuttavia, si è limitata a riconoscere come legale la possibilità di affibbiare l’aggettivo “fascista” all’Onr, ma non ha stabilito se questa formazione sia da considerare effettivamente un’organizzazione “fascista”, nel cui caso sarebbe da considerare illegale.
Per approfondire: Anche i polacchi erano antisemiti, ma preferiscono dimenticare (East Journal)
Ungheria-Germania: Deutsche Welle ha deciso di aprire un canale in ungherese per riportare un minimo di pluralismo. La decisione dell’azienda pubblica tedesca segue di poco quella di Radio Free Europe (RFE), l’emittente americana fondata agli albori della Guerra fredda per diffondere oltrecortina informazione non censurata dai vari Politburo.
Perché conta: La modalità con cui l’esecutivo magiaro ha infiltrato e occupato il comparto mediatico è nota: imprenditori vicini a Fidesz hanno progressivamente acquisito la proprietà di centinaia di quotidiani e riviste, accorpandoli in seguito in una fondazione, la Kesma, che le ha trasformate di fatto in un megafono della propaganda orbaniana. Al contempo, le autorità hanno agito in modo da convogliare le inserzioni pubblicitarie verso i giornali amici, una tattica ripresa anche dai colleghi polacchi, e le poche realtà indipendenti sono state soppresse con varie trucchi. Le ultime vittime sono state Klubrádió, la voce dell’opposizione liberale di sinistra, e Index, finora uno dei siti web in ungherese più visitati. Leggendo che due realtà simbolo del fu mondo libero ricominceranno a operare in Ungheria, che solo tre decenni fa si divincolava dal Patto di Varsavia, la sensazione di déjà-vu scatta automatica. Una sensazione accresciuta dalle parole di Zoltán Kovács, il portavoce del governo ungherese, che in un intervento su un sito governativo, ha etichettato l’iniziativa di DW come motivata politicamente. Scrive Kovács: “ L’emittente pubblica tedesca si lancia in una piccola avventura transnazionale per raccontarci ‘storie vere’. Giusto in tempo per le elezioni del 2022. Niente di più di un pizzico di imperialismo culturale tedesco. Cosa può andare storto?”. In altra sede, sempre Kovács ha sostenuto che l’evoluzione del comparto mediatico ungherese sarebbe influenzata soltanto dal mercato, e non da forze esterne. Secondo lui, questo è il motivo per cui “storie che riguardano le comunità LGBT o i diritti di altre minoranze non appaiono così tanto spesso quanto vorrebbe la televisione pubblica tedesca”. Concetti e toni inusuali tra diplomatici di questo calibro, ma marchio di fabbrica, ormai caratteristico, dell’intelligentsia orbaniana, abilissima a occultare le proprie gravi, ripetute e documentate azioni liberticide spacciandosi per vittima innocente delle mistificazioni e delle prevaricazioni delle potenze esterne.
Per approfondire: Ungheria vittima eterna. Ecco come funziona la “danza del pavone” di Viktor Orbán (Linkiesta)
[s.b]