Europa Centrale
08.03.2021 – 15.19 – Ungheria-Ue: Mercoledì 3 marzo, dopo anni di dibattiti interni e ultimatum ignorati, Fidesz, il partito del premier ungherese Viktor Orbán, è uscito dal Partito popolare europeo (Ppe), la formazione che all’Europarlamento rappresenta il centrodestra moderato. Da anni Fidesz viene accusata di aver trasformato l’Ungheria in un’autocrazia, tradendo quei valori fondanti dell’Ue che il Ppe, la formazione più folta al Parlamento europeo, aspira a rappresentare e difendere.
Perché conta: Fidesz perde così la protezione della più grande famiglia politica europea, che per gli ultimi dieci anni ha di fatto legittimato la deriva autocratica impressa da Orbán e sodali all’Ungheria. La rottura è arrivata dopo anni di scontri nell’emiciclo comunitario, dove soprattutto i Socialisti e democratici (S&d), la seconda formazione più numerosa, avevano ripetutamente documentato, esposto e stigmatizzato le sempre più plateali violazioni dello Stato di diritto da parte di Budapest, producendo j’accuse molto articolati come il Rapporto Tavares (2013) e il Rapporto Sargentini (2018). Perorazioni che avevano messo sul piede di guerra parecchie delle forze politiche nazionali rappresentate dall’Epp, che nel tempo avevano invocato la linea dura contro Fidesz. L’acme di questa conflittualità la si era raggiunta durante la campagna elettorale per le ultime elezioni europee (maggio 2019), quando in patria Fidesz aveva impostato la propria strategia elettorale sulla dura critica agli stessi candidati dell’Epp, per esempio al presidente del partito Manfred Weber. La recalcitranza finora mostrata dalla dirigenza dei popolari, in primis dal primus inter pares, la Cdu di Angela Merkel, non si spiega con gli equilibri parlamentari. Anche senza i dodici seggi di Fidesz e quello del piccolo partito ultracattolico ungherese che governa assieme a lei, la Kndp (1), i popolari possono ancora contare su 169 parlamentari, un pugno in più dei socialdemocratici (154) e molti più di Alde, la formazione liberale (108), terza in graduatoria. Considerando che Fidesz andrà verosimilmente ad ingrossare le fila di una delle due formazioni di estrema destra – Identità e democrazia (73) o Gruppo dei conservatori e dei riformisti europei (62) -, la sua fuoriuscita non insidia il primato del Ppe. Allo stesso modo, la motivazione ufficiale fornita in questi dieci anni – tenere dentro i ribelli ungheresi avrebbe permesso di smussarne le velleità dittatoriali – è stata smentita dai fatti. I due motivi principali che spiegano allora la ritrosia del Ppe sono altri. Il primo è stato la paura di scatenare un effetto domino. La cacciata di Fidesz crea un precedente e, in ottica politica, suggerisce una tattica agli avversari, che potrebbero potenzialmente ribaltare le maggioranze facendo pressioni affinché vengano espulsi determinati soggetti dai rispettivi gruppi parlamentari, forse i futuro anche per ragioni meno clamorose di quelle nel caso ungherese. Ma soprattutto, l’addio di Fidesz ne celebra, paradossalmente, la vittoria. Basta leggere il manifesto pubblicato dai popolari per le elezioni del 2019 per cogliere il senso della vittoria dei sovranisti ungheresi, quanto abbiano inciso sulla coscienza politica della destra moderata europea. Tra gli obiettivi di quella che è sempre stata una forza conservatrice, ma intrinsecamente europeista, moderatamente liberale e quasi sempre immune a qualunque estremismo, spiccano molto in alto tematiche legate alla sicurezza (contrasto all’immigrazione clandestina, Difesa, contrasto al terrorismo) e alla difesa dello “stile di vita europeo”, un concetto vago ma dall’evidente orizzonte identitario-esclusivista. Questo scivolamento a destra non è, naturalmente, merito solo di Orbán e scherani, ma il loro ruolo nel battere con insistenza su questi temi e nell’avanzare soluzioni radicali e inedite, come la costruzione di una barriera al confine con la Serbia, va riconosciuto. Fidesz esce passando sotto l’Arco di Trionfo.
Per approfondire: “Orbán. Un despota in Europa” di Stefano Bottoni [Pandora Rivista]
Slovacchia-Ucraina-Russia: Durante un’ospitata in radio dove ha parlato anche della controversa scelta di acquistare il vaccino russo Sputnik V, il premier slovacco Igor Matovič, alla domanda “Cosa ha promesso alla Russia in cambio del vaccino?”, ha risposto “l’oblast’ della Transcarpazia”. La Transcarpazia, appartenuta alla Cecoslovacchia tra le due guerre, è oggi una regione dell’Ucraina occidentale. La battuta non ha fatto ridere Kiev, che dal 2014 è impegnata in un conflitto con la Russia nelle regioni secessioniste dell’Est, gli oblast’ di Donec’k e Luhans’k, e rivendica ancora la sovranità della Crimea, annessa da Mosca nel 2014, poco prima di intervenire in Donbass. Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba a suggerito al premier slovacco di offrire come contropartita territori slovacchi, non ucraini. Matovič si è poi scusato via Twitter, chiudendo la querelle diplomatica.
Perché conta: Una boutade goliardica uscita in un momento di leggerezza. Dal punto di vista materiale, nessun governo slovacco – non solo quello attuale – avrebbe l’interesse né tanto meno la possibilità di intervenire sulle questioni territoriali che riguardano un paese così strategico per il fronte transatlantico come l’Ucraina. A differenza dell’Ungheria, inoltre, la Slovacchia non nutre latenti pulsioni imperialiste sulla Transcarpazia, anche perché non vi abitano minoranze slovacche. Tuttavia, Matovič ricopre la carica di primo ministro di uno Stato che, come già osservato nelle ultime due edizioni di questa rubrica (22 febbraio e 1 marzo), rimane intimamente legato alla Russia. Un legame pluridecennale che combacia alla perfezione con l’aggancio di Bratislava a Berlino, una linea smaccatamente filotedesca che differenzia la Slovacchia, – unico Stato del Gruppo di VIsegrad ad aver introdotto l’euro – dal resto della regione centro-europea. Così, in prospettiva ucraina, l’uscita infelice di Matovič tocca corde molto sensibili. Specie se si considera che il premier non è esponente di una delle varie – ma al momento frammentate e poco consistenti – forze politiche orgogliosamente filorusse dell’arena politica slovacca, bensì di un movimento populista sì, ma anche pragmaticamente europeista e poco propenso alle rivoluzioni, soprattutto in politica estera. Lo spettro che aleggia di fronte agli occhi delle autorità ucraine ogni qualvolta un politico europeo, specie se membro di governo, mette in dubbio, per celia o per convinzione, l’integrità territoriale del paese post-sovietico è la possibilità che il blocco occidentale attenui la sua ostilità a Mosca, e accetti quindi lo status quo imposto dal Cremlino in Crimea e soprattutto in Donbass. L’amministrazione Trump, con la sua politica ondivaga e ricattatoria, esemplificata nelle celebre telefonata con il presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj, ha per la prima volta obbligato Kiev a confrontarsi con questo terrore. Che la Slovacchia non sia la migliore amica dell’Ucraina, e che se fosse per lei il riavvicinamento tra Ue e Russia varrebbe pienamente il sacrificio di qualche remota regione ucraina, non è un mistero. Ma quasi mai lo si ammette con tanta nonchalance.
Per approfondire: Da Bratislava è arrivata la conferma: il Gruppo di Visegrád non esiste [Limes]
Balcani Occidentali
Montenegro-Cina-Nato: Martedì 2 marzo le autorità montenegrine hanno lanciato un’indagine per “danno ambientale” a carico della China Road and Bridge Corporation (Crbc), l’azienda cinese che sta costruendo l’autostrada Antibari/Bar-Boljare, per la sue attività nel canyon del fiume Tara, sito Unesco. È la prima inchiesta del Montenegro su una compagnia cinese. Sono stati pubblicati, intanto, i dati sugli investimenti stranieri in Montenegro relativi al 2020: complessivamente, gli Stati membri della Nato hanno investito 230 milioni di euro, ma lo Stato singolo che investe di più resta la Russia (99 milioni), seguita da Cina (71) e Svizzera (63).
Perché conta: Una notizia e alcuni numeri accomunati dallo stesso sottotesto: l’influenza della Cina nella piccola repubblica adriatica, e nel resto dei Balcani occidentali (Serbia esclusa), è in calo, come già osservato da questa rubrica lo scorso mese. Aprire un’inchiesta per punire i misfatti in ambito ecologico-ambientale è un’azione significativa. Le aziende cinesi, tutte direttamente o meno emanazione del Partito comunista cinese, sono state più volte accusate di non essere né in grado né disposte a rispettare gli esigenti standard Ue in materia di protezione dell’ambiente. Proprio questo loro deficit, paradossalmente, le ha rese dei partner convenienti per i governi della regione: non curandosi delle ricadute ambientali, le compagnie cinesi possono offrire prezzi più competitivi dei concorrenti europei. Sono anni che gli ambientalisti montenegrini denunciano lo scempio che sta venendo compiuto sul letto del fiume Tara, uno dei rarissimi canyon su suolo europeo, ma perché, dunque, solo ora è stata lanciata un’istruttoria? Contano sia i fattori esterni che quelli interni. La scena internazionale sta cambiando rapidamente. Con Trump lo scontro Usa-Cina si è mostrato per quello che è: una dinamica sistemica, non uno sfogo passeggero. Pechino è un partner sempre meno conveniente per chiunque appartenga, o aspiri ad appartenere al blocco occidentale (Nato/Ue), com’è il caso del Montenegro. Il nuovo esecutivo montenegrino capeggiato da Zdravko Krivokapić, poi, ha promesso di rompere con il passato, con i quasi trent’anni di dominio del presidente Milo Đukanović. Proprio lo scorso mese sono stati nominati nuovi ambasciatori nella maggioranza dei paesi più rilevanti per la strategia di Podgorica. La claque di Đukanović aveva reso l’interazione con la Cina, avventata sul piano della solidità finanziaria, una componente centrale della propria “stabilitocrazia”, regime politico devoto al mantenimento della stabilità interna molto in voga in questa regione. Come già ricordato in questa sede, aziende affiliate a Đukanović si erano garantite appalti succulenti come partner locali dei colossi cinesi. Il nuovo esecutivo, peraltro estremamente fragile, non pensa davvero di rinunciare ai soldi del Dragone, ma è chiamato a riallinearsi alla Casa Bianca, come ci si aspetta da un leale membro Nato – come ha finora finto di essere.
Per approfondire: Le ragioni del cuore e quelle della Realpolitik nel nuovo Montenegro [Limes]
Macedonia del Nord: Mercoledì 3 marzo il governo macedone guidato da Zoran Zaev ha convocato e vinto un voto di fiducia. Hanno votato a favore dell’esecutivo tutti e 62 i parlamentari (su 120) che sostengono la maggioranza, mentre erano assenti tutti i deputati delle opposizioni, che continuano a boicottare i lavori. Il protocollo prevede che il premier possa chiedere all’aula un voto di fiducia immediato.
Perché conta: Per chiunque non sia avvezzo del sistema macedone, vedere un premier che chiede un voto di fiducia a un’aula senza opposizione, lo ottiene subito, lo vince e può così dichiarare rientrata la crisi politica è una scena buffa. Ma il dato politico è serio. Sebbene da mesi le opposizioni nazionaliste affermino che l’esecutivo non ha più la maggioranza, ciò si è dimostrato falso: pur con un margine risicato, Zaev ha ancora il sostegno del parlamento. Due appunti. Primo, un conto sono i crismi procedurali, un conto i meccanismi della democrazia reale. L’attuale governo, espressione del segmento più europeista e filoccidentale della società macedone, non si è dimostrato capace di attrarre il minimo sostegno dai banchi dell’opposizione. Quanto questo boicottaggio intransigente sia frutto di una scelta tattica a fini elettorali o quanto derivi da una fondata critica delle politiche condotte dalla maggioranza socialdemocratica lo può sapere soltanto Hristijan Mickoski, il leader del partito Vmro-Dpmne, la principale forza dell’opposizione. Certo la prolungata assenza dei rivali dall’aula appanna le credenziali democratiche e liberali rivendicate da Zaev. Due, il voto suggerisce che anche in Macedonia del Nord si stia riproponendo il modello stabilitocratico presente in altri Stati della regione, seppur in una veste edulcorata. Ovvero, un sistema dove il parlamento è de facto esautorato e serve solo per apporre l’imprimatur ai provvedimenti del governo. Una dinamica che non è esclusiva dei Balcani occidentali, ma che a queste latitudini, dove sistemi democratici reali non si sono mai affermati, accentua la crisi di legittimità delle istituzioni. Negli Stati che hanno affidato la propria sicurezza alla Nato, la democrazia resta sempre a sovranità limitata.
Per approfondire: La Macedonia del Nord è l’ultimo neo-Nato della Pax Americana [Limes]
s.b