19.02.2021 – 15.16 – Facebook contro i governi. Il (nuovo) casus belli fra un governo nazionale e i giganti dell’informatica e di Internet si sviluppa questa volta in Australia: Facebook ha annunciato infatti, “con un cuore pesante” (ma in mezzo alla pandemia Covid), di aver bloccato la possibilità per gli utenti di vedere e condividere notizie giornalistiche generate appunto in Australia, basando la sua decisione (globale) su una “incomprensione della relazione fra la piattaforma e gli editori”. Trovandosi quindi di fronte al dover scegliere fra “dover cercare di rispettare una legge che ignora la realtà di questa relazione, e bloccare l’accesso ai contenuti giornalistici”, Facebook ha preferito quest’ultima strada, cancellando di fatto i contenuti stessi, svuotando le pagine Social delle testate giornalistiche e degli editori, e facendo “con effetto immediato” scomparire una quantità enorme di informazioni già condivise, retroattivamente. Non è cosa da poco, e in Australia, soprattutto per quanto riguarda i piccoli editori e chi aveva fatto della pagina Facebook il veicolo principale d’informazione e di sostentamento pubblicitario, si è in breve arrivati allo psicodramma: per un piccolo editore locale che abbia investito molto o tutto in direzione Social, in pochi giorni questo può significare il fallimento della propria attività.
La reazione di Mark Zuckerberg, definita “deludente” dal governo australiano (con il quale egli stesso si è sentito telefonicamente), arriva a causa di una proposta di legge ed è una vera e propria sfida a braccio di ferro, che avrà conseguenze molto profonde o in un senso, o nell’altro: se il governo australiano non dovesse cedere di fronte a quella che appare come una vera e propria violazione alla libertà di espressione e di stampa, per Facebook le conseguenze saranno mondiali e segneranno profondi cambiamenti nel modo in cui le major tecnologiche influenzano e sfruttano la diffusione sulla rete Internet di contenuti non prodotti da loro: altri governi certamente seguiranno. E se invece dovesse essere il governo australiano a cedere, lo scenario risulterebbe, palesemente, ancora più buio, e consacrerebbe come potenza internazionale al di sopra della legge quella che di fatto è un’azienda tecnologica a capitale privato, peraltro di proprietà statunitense. Google, nel frattempo (descritta dal governo australiano come “servizio quasi essenziale per la comunità”), pur non avendo di fatto nessun concorrente sul mercato, si è dimostrata più disposta a trattare, soprattutto con i grandi editori come Murdoch, e a sostenere i più piccoli con investimenti e contributi diretti (anche perché l’eliminazione delle notizie giornalistiche australiane impatta direttamente, e per un bel po’, sui risultati del suo motore di ricerca, e quindi sulle visualizzazioni e vendite pubblicitarie), mentre Microsoft si è dichiarata apertamente a favore dei legislatori, considerando le normative presentate come “giuste”; il mondo sta per ora a guardare come va a finire, il vaso di Pandora è stato però aperto e i Social media, ormai considerati sorgente cruciale di notizie (in alcune nazioni, oltre il 50 per cento dei lettori utilizza il Social come primo punto di contatto attraverso il quale accedere poi ad altri contenuti), dopo dieci anni dall’inizio del loro boom non sono più una terra di nessuno.
Come mai si è arrivati a questo? Tutto comincia in Australia nel 2018, quando il governo commissiona un’analisi sull’impatto di Facebook e Google sulla competizione nel mondo dei media e della pubblicità, fortemente orientata a comprendere l’impatto del comportamento delle ‘big Tech’ come YouTube e Facebook sugli utenti finali e sui lettori. Da questa approfondita analisi dell’ACCC (Australian Competition and Consumer Commission) emerge un forte squilibrio fra gli editori e le testate che producono i media attraverso il lavoro dei giornalisti e dei loro collaboratori, e le ‘Big Tech’ stesse, che i contenuti esclusivamente li rilanciano senza fare nient’altro. In pratica Facebook, Google e gli altri portano a casa fatturati ingentissimi, con margini elevatissimi, grazie al lavoro fatto da altri, ovvero dagli editori che gradualmente si ritrovano sempre più in difficoltà economiche (il trend di decrescita continua ormai da diversi anni). Il governo australiano, quindi, introduce un codice di condotta per regolamentare la condotta dei ‘big’, e nel luglio dello scorso anno 2020 viene pubblicata una proposta tesa a trasformare in legge il codice di condotta stesso: in pratica viene chiesto ai ‘grandi’ di pagare per i contenuti rilanciati attraverso i Social network, senza definire ancora con precisione l’ammontare ma riferendosi al ‘fair use’. È giusto, secondo il legislatore australiano, che un Social network paghi per avere il diritto di utilizzare materiale prodotto da altri; fin qui sembra tutto logico (diritto d’autore e quanto ne consegue), ma non lo è per i ‘big’, che, abituati al tutto gratis, reagiscono rispondendo che le testate e gli editori “dovrebbero essere ben contenti di utilizzare gratuitamente le loro piattaforme”, che garantiscono loro maggiore visibilità, e che quindi non pagheranno un soldo, uscendo piuttosto dal mercato nazionale cancellando e inibendo i contenuti: in fondo, secondo Facebook, gli editori beneficerebbero di “un ritorno pari a centinaia di milioni di dollari” ogni anno. Peccato, però, che appunto la sproporzione sia enorme: semplificando moltissimo e andando verso l’iperbole (ma non tanto, viste le dimensioni raggiunte dai Social mondiali: miliardi di utenti), se un editore, da un contenuto prodotto, guadagna 10 pagando 5, il network guadagna 1000 pagando 1, e i guadagni di Facebook sono, in termini di dollari, non di centinaia di milioni ma di miliardi e miliardi. Facebook dice ancora che “la scelta di pubblicare o meno le notizie sulle pagine Social è una libera scelta degli editori stessi”, ed è vero: dimentica però di menzionare che avere una pagina Facebook in termini d’immagine è ormai diventato quasi un obbligo (chi non c’è, non è ‘trendy’), soprattutto da quando la politica si è spostata sui Social, e che gli amministratori del Social network stesso, figure non bene identificate e prive di un nome e cognome, non sono propriamente democratici, in quanto hanno la possibilità di oscurare e privilegiare chi vogliono letteralmente nello spazio di tempo di un click (come il nemico di 007 faceva in uno dei suoi film), appellandosi a una (nebulosa) policy che gli utenti del network stesso sono obbligati ad accettare, pena l’estromissione temporanea o a vita senza possibilità di appello.
Il secondo punto della proposta di legge australiana che non va giù ai ‘big’ è il fatto che gli editori e le società che producono contenuti possano raggrupparsi per negoziare e far fronte legalmente ai ‘grandi’ nel caso in cui vogliano essere pagati per contenuti che i ‘grandi’ prelevano automaticamente dai loro siti Internet attraverso mezzi tecnologici, come i software aggregatori di notizie e i risultati delle ricerche. Secondo gli australiani, è giusto che le grandissime aziende dominatrici di Internet sostengano il libero giornalismo, ritenuto “vitale per la democrazia”, e in caso di illecito e condanna del giudice, il legislatore australiano si focalizza proprio su Google e Facebook e prevede multe molto pesanti: fino al 10 per cento del fatturato dell’azienda riconosciuta colpevole. Va ricordato che finora Facebook, ad esempio, ha sempre rifiutato di ammettere di essere un’azienda che lavora nel mondo dell’informazione: se dovesse ammetterlo, si troverebbe automaticamente a dover rispettare le leggi sull’informazione (per dirne una, avere un direttore responsabile), cosa che Mark Zuckerberg non ha dimostrato di essere intenzionato a fare. Per ogni euro speso in pubblicità sul web, infatti, Google si tiene secondo gli analisti di mercato circa 50 centesimi (per un fatturato, nel solo 2019, di oltre 160 miliardi di dollari, in aumento), Facebook quasi 30 centesimi, e il resto viene diviso in decine di rivoli, solo parte dei quali arriva all’editore, che è però quello che paga la grandissima parte delle tasse (oltre agli stipendi).
In Australia, la legge che punta a evitare lo strapotere dei Social sulla diffusione delle notizie giornalistiche ha forte sostegno sia politico che popolare. In Europa, da un punto di vista di rapporti fra le testate giornalistiche, gli editori e i Social network, in modo più distante dal pubblico (non ancora sufficientemente informato) sta accadendo qualcosa di diverso ma di analogo, perché già da un po’ si discute sull’obbligo, per gli aggregatori di notizie, di pagare gli editori stessi, e il governo Macron, in Francia, ha già raggiunto recentemente un accordo con Google (anche se a essere privilegiati sono stati per ora solo i grandi giornali, cosa molto diversa da quella che accade ora in Australia). E la discussione sullo strapotere Social, dopo Capitol Hill, si è ora aperta anche negli Stati Uniti.
[r.s.]