07.02.2021 – 14.28 – “The Italians have finally made a brilliant choice”. È la frase, compreso quel ‘finally’, che racchiude meglio in sé quello che (quasi) tutto il mondo sta dicendo di noi ‘Italians’: Mario Draghi, il settantatreenne ex presidente della Banca Centrale Europea che ha ricevuto da Sergio Mattarella l’incarico di formare un (ennesimo) governo tecnico per portarci fuori dall’emergenza economica causata dal Coronavirus (Draghi in fondo significa proprio questo: più che sanitaria, la tragedia italiana che sta per rivelarsi da marzo in avanti è la situazione in termini di posti di lavoro svaniti e filiere produttive e di servizi interamente distrutte), è, per il nostro paese, l’uomo giusto al momento giusto. Lo vogliono, per l’appunto, l’Europa e il mondo: i titoli sovrani (BOT, CTZ, CCT, BTP, in mano normalmente a grandi investitori che non sono il cittadino che risparmia, e per un terzo controllati da paesi stranieri fra i quali ora Cina e Giappone) saranno probabilmente quelli che beneficeranno di più dell’ ‘effetto Draghi‘ (auspicato da Matteo Renzi già dalla settimana prossima), per un guadagno possibile complessivo e immediato di almeno il 7 per cento. Cifre elevatissime quindi; i BTP, e non è poco, beneficeranno della compressione del ben noto spread fra Italia e Germania, quello che innescò la ‘caduta pilotata’ di Silvio Berlusconi (improvvisamente rimasto, allora, a contare con le dita in diretta tivù la maggioranza diventata minoranza, guardato dalla regia tedesca), e l’effetto è già in corso (siamo tornati ai livelli del 2015). In uno scenario non-Draghi, chi controlla i BTP, per realizzare denaro, avrebbe dovuto aspettare.
Il nuovo premier italiano dovrebbe essere, secondo l’opinione dei più, un primo ministro al di sopra della politica; e certamente, per carattere e carriera di una vita intera, Draghi lo sarà, eppure proprio questo potrebbe essere il suo problema più grande e la sua debolezza. Da Draghi ci si aspetta che sappia mettere assieme con la colla della sua autorità e con il suo carisma un parlamento frammentato del quale Giuseppe Conte, fra i cambi di casacca (sostenuti dal gradimento dell’opinione pubblica: date a Cesare quel che è di Cesare), è stato la massima espressione; eppure Draghi non è un politico, e politica non ha mai voluto fare; che egli sappia dirigere, fra un Vito Crimi, un Zingaretti e un Matteo Salvini, i gruppi parlamentari italiani, noti per rivelare a ogni buona occasione la coerenza del mercurio buttato per terra, è tutto da dimostrare (e di eventuali tentativi fatti a vuoto potrebbe stancarsi ben presto). Draghi poi arriva con il beneplacito di Matteo Renzi, grande artefice della sua venuta, e Renzi è l’uomo politico che il governo italiano l’ha appena disfato (consapevolmente, e ci rimette trovandosi ancora più emarginato di prima); una maggioranza Draghi che sia solida è immaginabile solo con l’appoggio o della Lega o del Movimento 5 Stelle, ed entrambe le cose sembrano ora possibili, sentendo i portavoce parlare. Eppure la Lega ha sempre alzato la voce contro l’Europa, di cui Mario Draghi è l’incarnazione, e il Movimento 5 Stelle si augura che banchieri e tecnocrati possano sprofondare nell’inferno di Dante da quando Grillo è salito per la prima volta sul palcoscenico della politica (in mezzo resta il Partito Democratico: un banchiere di Goldman Sachs sponsorizzato da Zingaretti potrebbe essere difficile da far digerire alla base della sinistra). C’è Forza Italia, che Draghi lo sostiene: a sostenerlo però rischia la rottura con gli alleati politici. Attenti poi a Fratelli d’Italia, e Salvini lo sa: se, d’improvviso anche in questo caso, l’Europa che Draghi rappresenta è diventata gradita, non è che una mossa strumentale, e ora che Conte (obiettivo primario di Giorgia Meloni) non c’è più, chissà che un errore di Matteo Salvini proprio nei confronti di Draghi non possa far sì che il superamento avvenga, con un FdI primo partito della destra: difficile, infatti, che la Meloni supporti Draghi davvero (forse impossibile). Sia a Matteo Salvini che a Giorgia Meloni, alle elezioni converrebbe andare ora: ne uscirebbero vincitori, e di buona misura. Ma c’è l’incognita, troppo grande per concedersi il rischio di andare alle urne, del Recovery Fund (chi riceverà cosa? Quali nomine, quali correnti e fazioni?) e dopo di esso lo scenario potrebbe essere mutato.
Politica estera: che farà Draghi? Con Joe Biden al timone degli Stati Uniti, uno dei cardini della politica estera d’oltre Atlantico è diventato definire assieme agli alleati (quindi anche assieme all’Italia) una politica comune che permetta di guardare, se non più dall’alto di una supremazia ormai perduta ma almeno alla pari, la Cina, che ha agganciato al suo treno, per ora indissolubilmente, la Russia e una discreta parte dei Balcani; con Mario Draghi a Palazzo Chigi, questo sarà più facile, e non si poteva certamente continuare a pensare che fosse Luigi Di Maio (che, come scrive Gramellini, da Draghi ha ricevuto ‘buone impressioni’), a mediare fra Biden, Putin e Xi Jinping. Con un grosso ‘ma’: e se invece Biden, con Russia e Cina, dovesse per forza fare il muso duro? Sarebbe un miracolo per l’Europa post Brexit (con la Scozia che le fa l’occhiolino): molto probabilmente diventerebbe più coesa (il Recovery Fund ne è stato già un segno), e questa è una cosa che Draghi spera da sempre e alla quale ha dedicato quasi la sua intera vita e carriera. Ed ecco che le cose quindi si complicano, perché Draghi è un’incognita sia per una parte che per l’altra: più verso Biden (e quindi meno Europa), o più verso un’Europa unita?
Tornando a noi però, e alla nostra vita di ogni giorno che non è fatta di Goldman Sachs e di Xi Jinping, ci si sente un po’ meno tranquilli se, messo da parte l’entusiasmo (di qualcuno) per un Giuseppe Conte che torna per il momento a casa (a mani vuote: per lui un peccato, in Europa aveva vinto, sempre a Cesare va quel che è di Cesare), ci si ricorda che un governo di tecnocrati al di sopra della politica non è una bella cosa. Sarà più duro di quello dell’ormai (ingiustamente) famigerato Mario Monti (ebbe il grande merito di lavare i panni sporchi che nessuno osava toccare; assieme all’acqua sporca, però, gettò via anche le scarpette buone e la cuffietta del bambino). Monti ebbe un ruolo da bravo tecnocrate grandemente rispettato nel mondo e in Europa (che qualche concessione benevola alle banche nostrane la fece); qualche lacrima, dopo il governo Monti, la stiamo piangendo ancora oggi, e con il governo Draghi ne arriveranno di più amare: ha il compito di supervisionare il modo in cui l’Italia amministrerà aiuti economici enormi, una cosa senza precedenti assimilabili al contesto in cui viviamo (bisogna andare alla Seconda Guerra Mondiale, e non era uguale), che Draghi stesso ha contribuito a rendere possibile attraverso cambiamenti da lui facilitati quando era alla BCE. E dovrà farlo con il proverbiale pugno di ferro nel guanto di velluto. La ricetta di lacrime l’ha già indicata nei mesi passati prima di sapere che sarebbe toccato a lui mettersi ai fornelli, e le lacrime sarebbero state comunque necessarie, inevitabili e chissà magari dopo staremo meglio; ma la politica ha il grande merito di fare qualcosa che ai tecnocrati riesce molto male: mediare e trovare compromessi. In buona sostanza l’incarico a Mario Draghi rappresenta la sconfitta dell’intera classe politica italiana (un po’ come se Mattarella dicesse: “Non siete stati capaci di fare niente e stavate per fare peggio”: principe della sconfitta il Movimento 5 Stelle, che dopo aver promesso tanto con il sostegno a Draghi si trova a perdere credibilità), con la sola eccezione in parte di Matteo Salvini e in pieno di Giorgia Meloni stessa, che al contrario di Draghi non piace a tutti (per la stampa internazionale, molto spesso il partito di Meloni è ‘il partito neofascista’). Ecco perché il governo tecnico (ci stiamo abituando agli ‘uomini forti’: non facciamocene un vanto, e non rende più autorevole la figura del capo dello Stato), alla fine, bene non funziona mai. Draghi non rappresenta, per l’Italia, una soluzione, ma diventa il simbolo dell’incapacità italiana di risolvere un problema che dura da troppo e che sta continuando: l’ormai stantio duopolio figurato fra populismo e tecnocrazia, che non c’è solo da noi ma che ha colpito molte nazioni (dalla Grecia agli Stati Uniti), non è mai la soluzione, è solo il transito verso qualcosa che deve venir riempito da altro, ovvero dal voto popolare: voto popolare ovvero elezioni “Whatever it takes”, costi quello che costi, perché senza elezioni questo qualcosa con cui riempire un vuoto (che è vuoto da tempo) non arriverà mai.
[r.s.][foto Stringer Italy/Reuters]